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I lavoratori egiziani salgono alla ribalta

La faccia sconosciuta della rivoluzione

Le notizie che ci ammanniscono i media sovente non rispecchiano adeguatamente la realtà dei fatti e, qualora la rispecchino, vengono però purgate degli aspetti meno graditi al potere. Nel caso dell’Egitto, la realtà che ci è stata propinata è quella di un paese dove una moltitudine di persone ha lottato per settimane, a costo di morti e feriti, avendo come fine ultimo l’abbattimento di un tiranno liberticida e l’instaurazione della democrazia. Stop. Della situazione economica e sociale dell’Egitto, della sua enorme massa di disoccupati, della povertà che colpisce la gran parte dei suoi abitanti, del fatto che Mubarak e la sua rapace corte fossero uno strumento al servizio dell’Occidente e non solo, poche testate hanno dato conto approfonditamente.

A dimostrazione di come i media utilizzino le notizie a loro uso e consumo al fine di veicolare le idee, ecco infatti un aspetto della rivolta egiziana che, rivelato da un corposo lancio della Associated Press dall’Egitto, non è stato – chissà poi perché – adeguatamente trattato dalle Tv e dai giornali. All’estero alcune testate si sono infatti limitate a pubblicare il lancio senza commento alcuno, altre, ad esempio nel nostro paese, lo hanno semplicemente ignorato. Il lancio era intitolato “In Egitto gli scioperi aggiungono pressione alla protesta”, un titolo di per sé onesto ma, al tempo stesso inadeguato, in quanto, da una veloce lettura del contenuto, si comprende immediatamente che la sostanza della notizia è ben altra. Nel testo della corrispondenza ecco infatti un passaggio chiarificatore: “Non tutti gli scioperanti hanno risposto direttamente alla chiamata dei manifestanti (di piazza Tahrir) ma il successo del Movimento e le sue denunce circa l’aumento della povertà sotto il regime di Mubarak hanno avuto risonanza ed hanno riacceso il conflitto sindacale che era già esploso frequentemente negli anni scorsi”.  Ma veniamo ai fatti.

Mercoledì 9 febbraio migliaia di lavoratori in tutto l’Egitto sono scesi in sciopero violando deliberatamente la “State of Emergency Law” (Legge sullo Stato di Emergenza) che, in vigore sino dal 1981, dava al governo i massimi poteri per reprimere con qualsiasi mezzo ogni tipo di opposizione interna, sia politica che sindacale. Nonostante le minacce del governo, nemmeno di fronte alla notizia di un possibile colpo di stato del tristemente Generale Suleiman, hanno ceduto, anzi. “Stiamo scioperando e non torneremo indietro finché Mubarak non sarà caduto” hanno dichiarato. Scioperi massicci hanno colpito settori diversi, dalle ferrovie ai trasporti pubblici, dal servizio dell’energia elettrica alle società che gestiscono il Canale di Suez, dalle fabbriche di prodotti tessili, alle acciaierie, fino agli ospedali “Ehi, Murabak, dove hai messo i tuoi 70 miliardi di dollari ?” hanno gridato i manifestanti mentre sfilavano davanti al ministero della Sanità.

Nonostante gli appelli del generale Suleiman, il quale minacciava di imporre la legge marziale, gli scioperi e le manifestazioni sono proseguite senza sosta; i dipendenti dei musei archeologici hanno manifestato sotto la sede del Consiglio Supremo per l’Archeologia chiedendo aumenti di stipendio e centinaia di lavoratori hanno manifestato davanti ad una manifattura della seta chiedendo le dimissioni del direttore, migliori condizioni di lavoro e aumenti di salario.

Nella provincia meridionale di Assiut, per protestare contro la penuria di pane, 8.000 agricoltori hanno eretto barricate con alberi di palma dandole poi alle fiamme, hanno interrotto l’autostrada e la ferrovia per il Cairo e, infine, hanno cacciato a sassate dai suoi uffici il governatore. A Port Said, gli abitanti delle bidonvilles hanno parzialmente distrutto con il fuoco la residenza del governatore per protesta contro la mancanza di case. In cinque città del sud, 6.000 tra dipendenti delle società che gestiscono il Canale di Suez, lavoratori del settore tessile, dipendenti un cantiere per riparazioni navali e della sanità sono entrati in sciopero nelle rispettive aziende chiedendo aumenti di stipendio.

Gli Egiziani sono ovviamente inferociti, se si considera che il 44 per cento degli oltre ottanta milioni di abitanti vive al di sotto della soglia di povertà. Non abbiamo diritti” ha detto un impiegato pubblico di Suez “forniamo un servizio 24 ore su 24 e siamo esposti a rischi ma abbiamo per questo una indennità di soli 1,50 dollari al mese”. Ci sono casi di lavoratori che hanno lavorato per una intera vita nel dipartimento e che sono andati in pensione con 200 dollari al mese” . Una realtà, quella raccontata dalla A.P., alquanto lontana da quella edulcorata narrata dalla stampa internazionale.

Ma la storia recente del movimento operai egiziano, per quanto sconosciuta ai più, è invece sorprendentemente vivace e vale quindi la pena di fornire qualche dato significativo.

A partire dal 1998 più di 2 milioni di lavoratori avevano partecipato a ben 3.000 tra occupazioni di fabbriche, scioperi, dimostrazioni ed altre azioni collettive di protesta per ottenere aumenti salariali, il pagamento di premi aziendali e benefici sociali o per protestare contro le inadempienze dei datori di lavoro. I conflitti sindacali erano poi considerevolmente aumentati da quando, nel 2004, ebbe inizio la campagna di privatizzazioni nel settore pubblico, il cui solo risultato, oltre che arricchire i soliti noti affaristi legati al governo, fu quello di causare l’aumento degli orari di lavoro e un calo dei salari e della protezione sociale, considerando che l’unico sindacato, l’Egyptian Trade Union Federation (ETUF), sin dalla sua nascita nel 1957, era stato pienamente colluso con il governo e i datori di lavoro. Solo nel 2007, quando 3.000 addetti alla riscossione delle imposte diedero luogo ad un sit-in di protesta davanti al Ministero delle Finanze che durò per ben undici giorni, vincendo e ottenendo un aumento di stipendio del 325%, nacque il primo sindacato alternativo al quello unico di stato.

Da rilevare inoltre che il salario medio di un lavoratore egiziano è assolutamente inadeguato a coprire le minime necessità familiari, quali il cibo e l’alloggio, oppure lo studio dei figli. Anche se mensilmente entrano in casa due stipendi, considerata uno stipendio medio tra i 45 e i 100 dollari al mese e la composizione di una famiglia egiziana in 3,7 persone, il risultato è sempre sotto la soglia minima di povertà stabilita dalla World Bank in 2 dollari giornalieri, tanto che la stessa Banca classifica il 44% degli egiziani tra le categorie “semi poveri”, “poveri” o “estremamente poveri”.

Per questo motivo, già nel 2008 la richiesta di un salario minimo nazionale di circa 200 dollari al mese era stata avanzata dai lavoratori della Misr Spinning and Weaving Co, nel Delta del Nilo, la più grande impresa del settore cotoniero, ma la protesta era poi stata sedata dall’intervento in massa della Polizia. La lotta per il salario minimo nazionale era stata poi ripresa nel febbraio 2010, quando gruppi di lavoratori provenienti da diversi siti produttivi avevano effettuato a turno un sit-in di fronte al Parlamento, riuscendo in tal modo a mantenere sul posto una presenza consistente per sostenere la loro lotta e per chiedere un miglioramento delle condizioni di lavoro ma, soprattutto, per attaccare la politica neoliberista del Primo Ministro Ahmad Nazif.

Nel successivo mese di Marzo era nuovamente stata lanciata una campagna per il salario minimo nazionale, fissato a 215 dollari mensili ed appoggiata da due organismi sindacali, il Center for Trade Union and Workers Services e l’Egyptian Center for Economic and Social Rights. A conclusione della campagna, il 2 maggio 2010 era stata convocata al Cairo una grande manifestazione nazionale alla quale erano accorse migliaia di lavoratori, ma l’intervento massiccio della polizia aveva disperso i manifestanti. La risposta del Governo era stata chiara. Di fronte ad una assemblea nazionale dello screditato sindacato statale ETUF, Mubarak aveva affermato che “in questi frangenti non c’è posto per coloro che non distinguono tra caos e cambiamento”.

Ora il cambiamento si è finalmente verificato, anche se non nel senso che probabilmente intendeva a suo tempo Mubarak. E’ quindi giunto il momento per i lavoratori egiziani di riprendere in mano il loro futuro.

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