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Il falò finanziario brucia lo stato sociale

 Nell’arco di poche settimane è divampato un incendio di vaste proporzioni che ha messo sulla graticola la tenuta del sistema dell’euro.

È stata attaccata a fondo la Grecia, fino a costringerla al varo di un piano di austerità lungo e duro, di proporzioni  inusuali, che ha aperto una grave frattura sociale. In cambio i governi dell’UE si sono impegnati, dopo sofferte tergiversazioni tedesche, a mettere sul piatto 60 miliardi subito e 750 in caso di necessità, per fermare l’attacco speculativo al debito pubblico dei paesi più fragili, gli ormai famosi PIGS o PIIGS, a seconda del grado di severità riservato al nostro Bel Paese. Spagna e Portogallo hanno già varato misure draconiane per soddisfare le richieste dei “salvatori”, l’Italia si appresta a farlo con una manovra da 27 miliardi di euro in due anni, il blocco degli stipendi pubblici, la chiusura di una finestra pensionistica nel 2011 e una lunga lista di tagli.
Germania e Francia hanno salvato la Grecia per salvare in realtà le proprie banche, fortemente impegnate sui titoli pubblici ellenici (45 miliardi di euro le banche tedesche, 55 quelle francesi).

Anche la finanza italiana era esposta per bene: 1 miliardo Intesa Sanpaolo, 900 milioni Unicredit, 2.2 miliardi le Generali; gli altri a seguire.
Il varo del piano europeo da 750 miliardi di euro è avvenuto in circostanze drammatiche, a sentire Zapatero, con il francese Sarkozy che minacciava la Merkel di uscire dall’euro, ponendo fine, dopo soli 10 anni, all’avventura della moneta unica. Il piano è paragonabile, come massa critica, all’intervento Usa del dopo Lehman, denominato prima Tarp e poi Talf, ma la forza della speculazione sembra averlo già polverizzato prima ancora che veda la luce. In realtà, al di là delle inevitabili scosse di assestamento, è probabile che alla fine funzioni: ricordiamo che il piano americano del settembre 2008 non ha impedito alle borse di scendere per altri sei mesi, fino ad inizio marzo 2009, prima di invertire “stabilmente” la tendenza.

Le banche americane, salvate da fallimento sicuro, stanno anzi approfittando alla grande dei fondi a basso costo messi a loro disposizione, speculando a man bassa sui mercati mondiali e devastando la finanza pubblica europea, mettendo insieme ingenti profitti da trading che consentono ad alcune di esse di restituire i soldi al tesoro Usa e sganciarsi da ogni residua forma di controllo.
La tenuta del piano europeo non è dunque affidata alle politiche di contenimento dei deficit pubblici, come vogliono farci credere, ma al fatto che la forza d’urto della speculazione tende sempre a fermarsi un minuto prima della catastrofe. Che senso avrebbe fare saltare un sistema che porta così ingenti vantaggi? Che logica assumerebbe fare fallire degli stati che lasciano spazi così ampi alle scorribande speculative? Cosa si può chiedere di più a governi deboli, incapaci di regolare i movimenti dei capitali, ma bravi e disponibili nel fare pagare ai popoli i costi del disastro? Significherebbe sputare nel piatto dove si mangia…

L’esplosione della crisi dell’euro, sceso fino a 1.23 nel cambio contro il dollaro, porta alla luce almeno quattro diversi problemi fondamentali:
una crisi dell’Europa come costruzione politica;
una guerra mondiale sui cambi come capacità di attirare capitali;
la exit-strategy per uscire dalla trappola della liquidità creata con la crisi finanziaria innescata nel 2008;
la candidatura alla guida del quinto ciclo dell’accumulazione capitalistica che sta emergendo nel fuoco della crisi.

Il primo punto segnala come la costruzione europea non possa proseguire con la logica del “volemose bene” adottata sinora, fino all’allargamento a 27.Esistono differenziali sociali, produttivi, economici e fiscali che non consentono pari velocità all’integrazione. Questi differenziali, sottaciuti e sottovalutati, sono esplosi con la crisi e hanno nuovamente fatto decollare il dibattito sull’Europa a due o addirittura tre velocità: un nucleo ristretto “manifatturiero” del Nord, asserragliato attorno alla fortezza tedesca, che include Olanda, Belgio, Francia e Italia del Nord, in grado di reggere sin da subito un euro “forte” simile al marco; un nucleo mediterraneo “turistico” che comprende Spagna, Portogallo, Sud Italia a Grecia, che dovrebbe usare un euro “svalutato”; un anello debole di paesi “attardati” che potranno aspirare ad accedere ai primi due livelli solo dopo una lunga anticamera fatta di aggiustamenti fiscali, cinghia e rigore. La Germania sembra voler usare la crisi per imporre una revisione restrittiva dei criteri di Maastricht, in modo da rendere inevitabile la fuoriuscita di chi non ce la fa. Cosa più facile a dirsi che a farsi, vista la disastrosa ricaduta che produrrebbe negli equilibri finanziari e nel tritacarne della speculazione: una retromarcia farebbe apparir, al confronto, lo tsunami finanziario di questi due anni come un divertente diversivo alla noia quotidiana.

Il secondo punto attiene ovviamente alla riproposizione del dollaro come moneta di riserva e di scambio nei flussi mondiali del risparmio e del commercio. Se il dollaro sembra spacciato nel lungo periodo come valuta egemone, ciò non toglie che ogni sforzo per ritardarne il declino venga tentato. Se la pressione sulla Cina per fare rivalutare lo yuan ha dato sinora risultati parziali e deludenti, l’eversione portata avanti dai fondi speculativi americani e inglesi sulla tenuta dell’euro sembra coronata da successi più evidenti. La sterlina, espressione del paese forse più incasinato in questo momento, non sembra avere guadagnato granché, ma il dollaro si è riconfermato ancora una volta, insieme all’oro, porto sicuro nei momenti di crisi acuta. Nouriel Roubini sostiene che il dollaro crollerà in un rogo devastante, in una sorta di Armageddon finale, ma per ora il biglietto verde sembra stare di nuovo bene, attira nuovi capitali, sfrutta i primi segni di ripresa economica e di stabilizzazione dei bilanci delle banche Usa (realizzati con condotte criminose, ma questo è un altro problema).

Il terzo punto vede confrontarsi le diverse strategie per uscire dalla situazione prodotta dalla crisi, con la complicazione di una nuova e inaspettata recrudescenza della volatilità dei mercati. Il problema è noto: abbassare quasi a zero i tassi d’interesse e portare dentro i bilanci pubblici i titoli tossici ha salvato il sistema finanziario, ma come uscire da questo tunnel? Le pressioni inflazionistiche tornano a farsi sentire e rendono necessario il rialzo dei tassi, ma l’economia è troppo asfittica per consentirlo. Inoltre i bilanci pubblici, stressati, non possono reggere l’aumento della spesa per interessi, né alzare il prelievo fiscale, pena strozzamento della ripresa. Il rialzo dei tassi è stato rimandato a data da stabilire, ma l’attacco speculativo ai deficit più gravi sta imponendo politiche di rigore draconiano ovunque in Europa: persino i politici si stanno riducendo la paga! Una via d’uscita potrebbe essere l’inflazione: l’erosione di salari e pensione avviene in modo più indolore e impercettibile, le tasse salgono in modo automatico, il debito pubblico si svaluta da solo nel corso del tempo. Magari anche l’economia ricomincia a girare. Alcuni economisti liberali, come Mario Deaglio, hanno chiesto alla UE di alzare dal 2% al 4% il tasso d’inflazione perseguito come obiettivo, dando respiro a tutte queste ipotesi. In ogni caso, si pone il problema di porre un qualche freno alla finanza selvaggia, che mina la stabilità sistemica. Il punto di rottura è stato ormai sfiorato più volte ed è insostenibile il mantenimento dello status quo: le classi dominanti devono sentirsi sicure di sfruttare le classi subalterne “in modo ordinato e regolare”, mentre le rivolte potenziali, e a volte anche reali, conseguenti alle crisi violente, minano l’ordine sociale e la continuità della spoliazione. Un qualche risultato da parte del Financial Stability Board di Mario Draghi o dell’iniziativa di Obama per nuove regole o la proposta della Merkel di varare un’agenzia di rating europea, dovrà pur venir fuori.

Il quarto punto attiene allo scontro epocale tra modelli economici che lottano per conquistare l’egemonia di lungo periodo nei cicli d’accumulazione del capitalismo mondiale. La potenza declinante americana prova di tutto per riprodurre la propria candidatura, erodendo la stabilità europea, consolidando la propria supremazia militare e il controllo diretto delle risorse energetiche, contrastando la penetrazione cinese sul continente africano e in America Latina, ridefinendo il confronto nucleare strategico con la Russia per fronteggiare nuove potenze nucleari (Iran per primo) e ridisegnando un sistema di alleanze più confacente alla nuova situazione. L’impero di Cindia è ancora immaturo per assumersi compiti di guida mondiale, deve prima costruire una espansione del mercato interno che gli consenta di raggiungere una vera autonomia, per ampiezza e solidità della domanda endogena, dalle oscillazioni incontrollabili dell’economia mondiale. Solo dopo potrà cominciare la vera partita.
 
A livello europeo, sembriamo destinati a fare da spettatori subalterni alla ridislocazione dei poteri e delle sfere di influenza: come italiani possiamo al massimo aspirare a rimanere legati alla macchina manifatturiera esportatrice tedesca, cui l’attuale svalutazione dell’euro, in fondo, porta bene.

Come classi subalterne, dobbiamo invece assumere fino in fondo la sfida che il governo, i padroni e le classi dominanti ci lanciano, con i loro bellicosi propositi di riprendersi le risorse finanziarie oggi “sprecate” nello stato sociale e utili per rilanciare la “loro” accumulazione di capitale. Una sfida che viene giocata sull’aspro terreno del conflitto sociale e che dimostrerà se ci sono le energie e le forze per contrastare i nuovi affamatori di popoli.
 

Posted in da Umanità Nova.