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Palestinesi sotto apartheid – Incontro con i Giovani Palestinesi

 

 

 

 

 

 

 

 

Incontro con i Giovani Palestinesi.
A seguire mangia&bevi libertario.

Le autorità israeliane devono essere chiamate a rendere conto del crimine di apartheid contro i palestinesi. È quanto ha dichiarato Amnesty international in un rapporto di 278 pagine nel quale descrive dettagliatamente il sistema di oppressione e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese. Nel rapporto si legge che le massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid.

Venerdì 22 aprile ore 18

Presso Ateneo Libertario
Viale Monza 255
Fermata Precotto

Posted in Ateneo Libertario.


Analisi e prospettive antimilitariste. Come si alimenta la guerra

Dopo un mese e più dall’inizio del conflitto russo-ucraino, emergono elementi che ci consentono di effettuare nuove valutazioni rispetto a quelle sino ad ora poste all’attenzione dei lettori di Umanità Nova. Due in particolare sono gli aspetti meritevoli di considerazioni: uno è geopolitico, cioè l’importanza strategica del Mar D’Azov e del Mar Nero, l’altro è la proposta, sempre più concreta, della costituzione di una difesa comune europea.

Per quanto riguarda il primo punto dobbiamo innanzitutto premettere che i due bacini d’acqua non hanno solo una valenza locale ma sono il punto d’arrivo e di partenza di una parte rilevante della geoeconomia globale che vede nella Via della seta (OBOR) la sua struttura portante. Il progetto “One Belt One Road” ha nelle vie marittime una delle direttrici preferenziali; non può che essere così, considerato che il 70% degli scambi commerciali a livello mondiale avviene per mare.

Il Mar D’Azov e il Mar Nero, tramite il Caucaso e in particolare la Georgia, sono uno dei punti di approdo globali della Via della seta. È anche il terminale delle economie degli Stan (repubbliche del Centro Asia) oltre che rappresentare la rotta più breve tra l’Europa e L’Estremo Oriente. Il Mar Nero è una delle vie d’acqua più trafficate a livello mondiale: sono quarantottomila le navi che annualmente lo attraversano (il Canale di Suez registra un traffico annuale ben inferiore con circa diciassettemila navi), oltre che rappresentare una delle arterie principali del trasporto del petrolio.

Oltre ai flussi energetici, di assoluto rilievo è il passaggio del grano russo-ucraino e del Centro Asia tramite il Kazakistan. Si stima che il passaggio del cereale attraverso il Bosforo e i Dardanelli  garantisca il 25% del fabbisogno mondiale, oltre che coprire la domanda globale di un quinto di granoturco ed olio di girasole. Non è quindi un caso che questo bacino d’acqua negli ultimi anni sia diventato terreno di competizione e di spartizione. La Cina, nel maggio del 2017, ha firmato un accordo con la Georgia diventando il terzo partner commerciale mentre, nello stesso anno, la società statunitense SSA Marine, uno dei leader logistici mondiali, ha preso in carico l’operatività del terminal container di Anaklia – uno dei più importanti del Mar Nero e già oggetto di finanziamenti europei, in particolare svizzeri, francesi e olandesi.

In sintesi questa via d’acqua rappresenta una delle principali direttrici dei traffici tra l’estremo oriente e l’occidente e viceversa. A conferma della crescente importanza del Mar Nero è il progetto turco del raddoppio del canale del Bosforo, con un costo previsionale di oltre 8 miliardi di dollari USA. Tale opera infrastrutturale ha due valenze, una geopolitica e l’altra economica. Nella partita russo-ucraina entrano in campo anche le “riserve”, i “panchinari” che, tradotto nel linguaggio geopolitico sono gli “imperialismi minori” dei quali la Turchia è uno degli esponenti di primo piano. Le influenze turche alimentate dal “panturchismo” consegnano a Erdogan uno strumento non indifferente di pressione non solo sulle aree immediatamente adiacenti all’Anatolia ma anche in territori situati nel cuore dell’Asia: ne sono un esempio le minoranze turcofone in Centro Asia sino ai confini della Cina.

Il richiamo panturco preoccupa non poco Mosca: ricordiamo i rapporti preferenziali tra Turchia e Ucraina, poi la richiesta di riconoscimento della minoranza turca tatara di Crimea. Le sirene nazionaliste panturche si sentono anche nel profondo della Federazione Russa, dal Tatarstan alla Baschiria sino alla Siberia dove la presenza di minoranze turcofone offrono a Erdogan un elemento di pressione nei confronti di Putin. Mosca non può rinunciare ad avere un peso nel Mar Nero: la stabilizzazione del Donbass e la creazione di un corridoio che dalla Crimea si estenda sino a Odessa diventa così vitale per il suo ruolo geopolitico e soprattutto per la sua economia.

Il 65% dell’export russo e il 38% del petrolio esportato passano dal Mar Nero. La partita russo-ucraina si gioca quindi su un campo molto più vasto di quello che comunemente si intende e va ben oltre i territori dell’attuale confronto bellico: si può perciò tranquillamente affermare che l’Ucraina è solo una parte di una partita geoeconomica euroasiatica. La crisi ucraina, già evidenziatasi nel 2014 con l’annessione della Crimea alla Federazione Russa, è solo un punto terminale di un disegno il cui focus è situato nel Centro Asia.

Mosca sta tentando di rimanere in gioco nella competizione internazionale riproponendo il suo schema imperiale. L’aquila russa ha la testa in occidente ma il corpo e gli artigli in oriente, e il mar Nero ne è la sintesi. La costruzione secolare identitaria della “Santa Madre Terra Russa”, ereditata in toto dall’U.R.S.S., con la pretesa di ricongiungere i russofoni alla “Madre Patria” è solo, come tutti i richiami nazionalistici, la facciata dietro la quale ci sono gli interessi delle classi sfruttatrici. Il Donbass, la Crimea e Odessa sono solo una parte, peraltro decisiva, nel tentativo di rimanere e contare nella competizione mondiale.

Il conflitto ha anche un altro effetto, quello di accelerare all’interno della UE il dibattitto su due punti focali: la necessità di una difesa comune europea e il ruolo dell’Alleanza Atlantica. Per quanto riguarda il costituendo esercito europeo avevamo già proposto, a inizio anno, ai lettori alcune riflessioni e delineato un quadro che ora trova ulteriori conferme. In queste ultime settimane, infatti, sono diventati sempre più numerosi gli interventi degli opinionisti di “regime” sulla necessità della UE di avere un suo autonomo ruolo dal punto di vista militare. Il Presidente del Consiglio Draghi, voce di “peso” non solo nazionale ma soprattutto in campo europeo, ha ribadito, al termine della riunione dei primi ministri della UE tenutasi nello scorso mese a Versailles, che l’Europa deve “razionalizzare” le spese dell’apparato militare e che non sia più differibile una organizzazione unica della difesa europea.

Tale opinione ha trovato un momento di discussione anche in un ambito politico inedito come quello del congresso ANPI (Associazioni Nazionale Partigiani d’Italia) conclusosi nell’ultima domenica di marzo. Non è questa la sede per una valutazione politica dell’associazione, ma dobbiamo comunque rilevare che l’ANPI sta mutando “pelle”: non è più la “cinghia di trasmissione” del partito maggioritario della sinistra. Negli ultimi anni è il contenitore, il punto di riferimento, delle istanze politiche e ideali di una parte significativa di quella sinistra più o meno legalitaria che da tempo non esercita più il voto e di chi non ha più alcun referente partitico. Per questa ragione da associazione di testimonianza sta assumendo gradualmente un proprio profilo, una sua “autonomia politica” e un peso sempre maggiore nell’ambito della sinistra legalitaria.

Significativa è la parte della relazione congressuale del presidente Pagliarulo riguardante il posizionamento dell’Europa nel conflitto, il suo posizionamento geopolitico e il ruolo dell’Alleanza Atlantica. Nel documento congressuale viene riproposto il concetto di un’Europa unita e indipendente. Nella relazione viene riportato che: “l’Unione Europea deve essere rappresentata con una sola voce” e, soprattutto, si incoraggia a chiare lettere il progetto di difesa comune europea, con caratteristiche esclusivamente “difensive”. Significativo, a tal proposito, un passaggio del documento congressuale: “senza un vero governo politico (Europeo) ed in particolare senza una comune politica estera non sarà possibile alcuna autonoma politica di difesa. Si è avviata una discussione su di un sistema di difesa europeo. Occorre che ne siano esplicitati e chiariti gli obiettivi, che dovranno essere mirati alla esclusiva difesa interna del territorio”.

Se da un lato viene caldeggiato un esercito comune europeo, progetto sostenuto fortemente da Italia e Francia, dall’altro lato viene anche esplicitamente affermato che l’Europa deve avere una sua autonomia politica. Il tema di una UE indipendente che possa giocare la sua partita nella competizione internazionale è visto anche in prospettiva di un esaurimento dell’Alleanza Atlantica. Nella relazione si afferma che: “va contrastata la tendenza, oggi prevalente, a considerare il futuro sistema di difesa come aggiuntivo alla NATO avviando una riflessione sul suo ruolo. Le ragioni originarie della NATO sono venute meno essendone caduti i presupposti storico-politici del crollo del Muro di Berlino. Nel nuovo mondo multipolare e nella prospettiva di un sistema di difesa europeo è perciò ragionevole una progressiva dismissione delle strutture NATO”. Affermazioni che non lasciano alcun dubbio sulla necessità di una creazione di una UE politicamente unita con un proprio strumento militare (esercito europeo) a sancire il fine percorso dell’era Atlantica.

Il conflitto russo-ucraino ha accelerato le contraddizioni all’interno della comunità europea e la UE non ha parlato con una “voce unica”, non vi è stata una gestione unitaria della crisi. Inoltre si è posta sul tappeto una questione da tempo presente, ma sempre rimandata: gli interessi di USA e UE non sempre si sovrappongono, anzi possono anche avere direzioni diverse e necessità di collocarsi nel quadro delle relazioni internazionali in modo autonomo. Il ruolo di Italia e Francia in Africa e nel “Mediterraneo allargato” è la lampante dimostrazione di un attivismo politico e militare che risponde a peculiari interessi dei due paesi, al di là ed al di fuori del disegno geopolitico USA e quindi del suo braccio operativo qual è la NATO.

In altre parole, si sta profilando un modo globale sempre più frammentato e in rapida evoluzione: in tale prospettiva l’Europa sta tentando, con mille contraddizioni, di ritagliarsi un ruolo di primo piano. Se l’ANPI, attraverso il suo presidente, sceglie la via europea in alternativa a quella atlantica, nella relazione congressuale non vengono chiariti due aspetti fondamentali. Il nuovo esercito europeo non può avere solo un carattere “difensivo”: gli eserciti non sono strumenti solo di dissuasione, un deterrente per la guerra, un salvacondotto per la pace, come alcuni esponenti delle forze armate da sempre sostengono. Il costo degli apparati militari, risponde a una stretta logica economica o, meglio, a un logico tornaconto: quello della protezione dei propri mercati, vuoi per assicurare l’approvvigionamento di materie prime o per garantire il buon esito delle proprie esportazioni.

Pagliarulo inoltre ha accuratamente evitato di chiarire un altro aspetto: l’indipendenza dagli USA e dalla NATO deve avere gioco forza un corollario irrinunciabile, quello di un apparato militare europeo ben più strutturato di quello attuale. Se la UE deve difendere i propri interessi deve inevitabilmente destinare alla spesa militare quote sempre maggiori di risorse rispetto a quelle, peraltro abnormi, ad oggi riservate. La domanda che ANPI non vuole porsi perché politicamente “scorretta”, è la solita: chi paga il conto? Il capitalismo ha sempre dato una sola risposta: le spese militari le finanziano le retribuzioni dei lavoratori o la diminuzione costante del welfare tramite il decurtamento delle pensioni e i tagli delle spese sociali. Il “pacifismo” e l’antiatlantismo targato ANPI lo pagheranno i soliti noti. In conclusione l’alternativa alla NATO non è e non può essere l’esercito europeo: non vi sono apparati militari “migliori” di altri finché il profitto regola i rapporti tra le persone.

Daniele Ratti

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


Organizzazione popolare e prigione politica in Cile. Dibattito + cena benefit

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Dall’IFA: Contro la guerra, per la solidarietà globale.

 

CONTRO LA GUERRA, PER LA SOLIDARIETÀ GLOBALE

La Commissione di Relazioni dell’Internazionale di Federazioni Anarchiche (CRIFA) si è riunita a Marsiglia dal 19 al 20 marzo 2022 e ha discusso sulla guerra in corso in Ucraina. Benché tra le Federazioni che compongono l’Internazionale ci siano delle visioni diverse su alcuni
punti, sui quali ci impegniamo a continuare un confronto e una discussione costruttiva, dal dibattito sono emersi importanti punti comuni.

Condanniamo l’aggressione criminale all’Ucraina promossa dal governo russo, così come condanniamo tutti i militarismi, solidali con oppress* e sfruttat* su entrambi i lati del confine, promuoviamo un sostegno attivo alle vittime del conflitto, alle persone in fuga, rifugiate,
prigioniere e a chi diserta da ogni lato di questa guerra e della sua possibile espansione. Nei contesti territoriali in cui le nostre diverse federazioni sono presenti, denunciamo e contrastiamo il ruolo che NATO, Stati Uniti e UE hanno giocato, anche nel creare le precondizioni che hanno permesso allo Stato russo di attaccare il suo vicino più debole con la complicità del suo burattino la Bielorussia. Denunciamo la crescita dell’autoritarismo nel mondo negli ultimi anni, che ha visto rafforzarsi il ruolo degli eserciti nelle politiche pubbliche. Nella
situazione attuale sottolineiamo in particolare la crescente militarizzazione della società, la corsa al riarmo in tutta l’UE e le richieste generalizzate di un esercito europeo che andranno ancora una volta a tagliare la spesa sociale.

Le classi oppresse e povere del mondo sono sempre perdenti nelle guerre. Sono carne da cannone, sradicate dalle proprie case, costrette ad affrontare povertà e malattie a causa della guerra. Allo stesso tempo, i padroni del mondo continuano a fare affari per controllare le risorse
mondiali. Ci opponiamo al capitalismo globale e al nazionalismo, cause della guerra. Quella che dobbiamo invece combattere è la guerra di classe, contrastando l’industria bellica, le spese militari e l’intera logica della guerra, e promuovere lotte orizzontali più ampie di lavoratori e di lavoratrici e collettività.

Evidenziamo allo stesso modo quanto sia pericoloso l’errore di difendere la “nostra” nazione o il “nostro” paese, e rivendichiamo le nostre posizioni antinazionaliste, disfattiste e per la diserzione, poiché il nemico è nel “nostro” paese ed è il “nostro” stato, la “nostra” borghesia nazionale. Invece invitiamo a creare solidarietà tra tutte le proletar*, e a denunciare il carattere globale del capitalismo e dello stato.

Confermando i nostri valori storici di internazionalismo, solidarietà e fratellanza globale oltre ogni confine, confermiamo la nostra opposizione a tutti i crimini e i massacri perpetrati dal capitale e dallo stato, a partire dal genocidio delle popolazioni nere e indigene che continua tutt’oggi in Brasile, in America Latina e in tutto il “Sud” del mondo, alla devastazione ambientale perpetrata dalla logica del profitto, dei mercati e degli Stati, che minaccia la vita stessa del nostro pianeta.

Nella perenne guerra degli oppressori contro le oppress*, assistiamo al peggioramento delle condizioni di vita dei poveri nel mondo a causa della pandemia e delle guerre regionali iniziate negli ultimi anni, che assieme alle spese per armamenti causate dell’economia di guerra hanno
contribuito a determinare il costo crescente dei beni di prima necessità. Sottolineiamo in particolare la tragedia dei migranti, delle persone emarginate e razializzate a cui vengono negati i diritti più elementari, e siamo al fianco degli ultimi, dei dimenticati, dei discriminati, contro gli stati, il capitalismo, il fascismo, il razzismo, il patriarcato e lo sfruttamento.

Commissione di Relazioni dell’Internazionale di Federazioni Anarchiche (CRIFA)
Marsiglia, 19 e 20 marzo 2022

Posted in Antimilitarismo, Comunicati.


Essere LGBT+ in contesto di guerra. Fra incudine e martello

 

Tra incudine e martello. Essere Lgbt+ in contesto di guerra.

In uno stato d’eccezione come quello bellico nessuno può sentirsi al sicuro, questo è indubbio. Per coloro che già in situazioni non emergenziali vivono una condizione socialmente svantaggiosa, però, la guerra è motivo di ulteriore oppressione: la comunità LGBT+ ucraina è un esempio calzante.

Stando alle informazioni raccolte e rese note dall’ILGA-Europe, sono molte le persone queer che non riescono ad abbandonare il paese a causa di difficoltà finanziare o logistiche dovute all’omobitransfobia dilagante nel Paese. Quando la solidarietà è rivolta solo o per lo più a chi viene riconosciuto come simile-a-me, all’Altro spetta un posto solo quando tutti gli altri lo hanno già occupato. In clima di guerra, più che in ogni altro momento, la solidarietà nazionale si arresta all’incontro con l’alterità. La minaccia dell’Altro si manifesta nella pelle nera di uno studente bloccato al confine, così come nei costumi poco conformi di chi, oltre la guerra, diserta la norma sessuale imposta.

L’orgoglio queer non è compatibile con l’orgoglio patriottico: più la distanza dalla norma è evidente e sfacciata, più grande è il disconoscimento. Non mi risulta che in Ucraina vi siano leggi che impediscono l’utilizzo di abiti considerati non conformi al proprio genere ma, dove non arriva l’autorità, arriva la morale del tuo concittadino. Il prezzo più caro lo pagano le soggettività transessuali e intersessuali: l’emergenza bellica aggiunge all’isolamento sociale e alla violenza consuetudinaria un più difficile accesso alle terapie ormonali e ad altre medicazioni fondamentali. Le organizzazioni trans locali provano a recuperare i medicinali cercando l’appoggio di Organizzazioni Non Governative, le tempistiche e gli esiti negativi vanificano però le loro fatiche. Il recupero dei farmaci ormonali è lungo e complesso perché le ONG dovrebbero ricevere le ricette mediche, pagare i medicinali e trasportarli a proprie spese in Ucraina. A rendere ancora più ostica la situazione è poi l’assenza dei medicinali di transizione nei paesi confinanti.

L’attivista e ricercatore ucraino Andriy Maymulakhin nel suo report sulla situazione delle persone ucraine LGBT+ individua fra le cause dell’omobitransfobia ucraina innanzitutto un’assenza di benessere materiale, la quale crea rabbia che gli abitanti sfogano spostando le colpe su soggetti e gruppi sociali già marginalizzati (la LGBT-fobia, difatti, dilaga al pari della xenofobia e del razzismo). Una seconda causa è senza dubbio data dalla forte morale religiosa su cui si fondano la famiglia tradizionale e lo Stato stesso. Qualsiasi esperienza alternativa a quella della famiglia eteropatriarcale, attenendoci al report dell’autore, non sembra concepibile dal cittadino ucraino, probabilmente anche e soprattutto a causa della mancanza di informazione rispetto a determinate tematiche. Gli ucraini non sono sufficientemente informati sulle persone di orientamento non eterosessuale. La maggioranza nutre percezioni stereotipate e prevenute sulle minoranze sessuali: giudica le persone LGBT+ sulla base delle “performance scandalose” che i personaggi dello show-business esibiscono in tv per lucrare sull’immagine comica e mainstream del queer. La famiglia catto-patriarcale censura il discorso queer nell’arena politica, tollera però l’omosessualità e persino una sua teatrale ostentazione nella performance televisiva: il vestiario eccentrico e poco virile dello showman in prima serata diverte la sacra famiglia, poiché non la sovverte ma la intrattiene: stuzzica la norma, ma non la rompe.

A ostracizzare le rivendicazioni queer dalla dimensione politica contribuiscono drasticamente la Chiesa e le sue reti organizzate di sostenitori che fomentano l’odio omobitransfobico sia nelle piazze sia sul web. A partire dal 2003, il movimento ucraino Love against homosexuality (Amore contro l’omosessualità) manifesta regolarmente nelle piazze per veicolare messaggi quali “l’omosessualità è AIDS”, “l’omosessualità è peccato” e per ricordare che “l’Ucraina è un paese cristiano”.

Quella ucraina rimane una società fortemente etero-cis-patriarcale dove nel corso degli ultimi venti anni i gruppi di estrema destra si sono sentiti in dovere di radicalizzare l’omobitransfobia all’interno della società, sebbene non vi sia mai stata nemmeno l’ombra di un’iniziativa capace di minacciare realmente l’ordine machista costituito (sarebbe assurdo pensare a un’iniziativa legislativa a beneficio della comunità LGBT+ laddove, stando a un’indagine del 2016 svolta dal Pew Research Center, l’86% della popolazione considera l’omosessualità socialmente inaccettabile).

Negli ultimi anni l’isolamento sociale della comunità LGBT+ nella società ucraina ha incoraggiato i gruppi neonazisti ad attaccare la comunità con ogni mezzo: se di giorno l’associazionismo pro-life manifesta nelle piazze contro una inesistente propaganda queer, di notte i militanti di estrema destra si sentono liberi di colpire con l’azione diretta i centri di aggregazione LGBT+ senza temere di mettere a repentaglio la vita delle persone presenti. Nel 2014, il Pomada (club gay di Kiev) è stato attaccato con petardi e granate fumogene da una ventina di neonazisti. Solo pochi mesi dopo, nello stesso anno, militanti provenienti dalla medesima area politica irruppero al Zhovten, il cinema più antico di Kiev, appiccandovi il fuoco durante la proiezione di un film a tema LGBT+.

Nonostante il vento sempre sfavorevole, un movimento LGBT+ è riuscito a strutturarsi in Ucraina e sembra pian piano maturare. Lo scorso anno il Pride di Kiev portò in piazza 7000 partecipanti, i quali si mobilitarono non senza preoccupazioni: se nell’ultima occasione i gruppi neonazisti e religiosi si riunirono in una piazza vicina per contestare le rivendicazioni queer, negli anni precedenti la marcia era stata interrotta dal lancio di razzi e petardi rinforzati con pezzi di metallo dai contro-manifestanti di estrema destra.

Nel corso dell’ultimo mese alcuni attivisti gay hanno messo da parte i cortei e preso in braccio le armi per rispondere militarmente all’invasione russa. In realtà una milizia armata LGBT+, la Brigata Unicorno, si formò già anni fa durante il conflitto nella regione del Donbass. Questa scelta, se non può essere condivisa da chi opta per la diserzione, può essere per lo meno spiegata prendendo in esame alcuni fattori.

L’Osservatorio Balcani e Caucaso ha dato voce ad alcuni ragazzi del posto che hanno raccontato come è cambiata la vivibilità delle persone LGBT+ nel Donbas nel corso degli ultimi anni. Sembra che prima della guerra la morale conservatrice condivisa dagli abitanti non rappresentasse un serio limite per la libertà di espressione e di aggregazione delle persone non eterosessuali e non cisgender. La situazione iniziò a prendere una piega inquietante nel 2014, quando alcuni leader separatisti cominciarono a diffondere nella regione tesi secondo cui “diventare omofobi dovrebbe essere compito di ognuno di noi [perché] se c’è la lobby degli omosessuali deve esserci anche una lobby degli omofobi”. In breve tempo, nelle aree controllate dai separatisti russi la violenza LGBT-fobica da consuetudine si è tradotta in legge scritta, mentre le relazioni omosessuali sono diventate reati perseguibili. Nella vicina Repubblica separatista di Doneck, un comma della Costituzione definisce che “non viene riconosciuta e permessa alcuna forma di unione perversa tra persone dello stesso sesso e qualsiasi [di tali unioni] è soggetta a penalità da parte della legge”.

Le asprissime discriminazioni che colpiscono i generi e le sessualità dissidenti nelle aree controllate dai separatisti filorussi non sono che un riflesso della repressione messa in atto da Putin nella Federazione Russa, equiparabile benissimo a quella di un regime fascio-islamico. La legge putiniana contro la propaganda gay rende impossibile lo svolgimento di qualsiasi attività volta alla tutela delle minoranze sessuali: ogni tentativo di espressione viene denunciato come “attività orientata verso la diffusione non controllata di informazioni capaci di avere un’influenza negativa sulla salute, lo sviluppo morale e spirituale e in particolare di formare una rappresentazione deformata del valore sociale legato agli orientamenti sessuali tradizionali e non tradizionali, presso persone che non hanno, a causa della loro età, la possibilità di valutare in modo autonomo e critico una tale informazione”. Insomma, è il sogno dell’associazionismo pro-life di casa nostra che, nella Federazione Russa, rappresenta la realtà: una realtà dove l’attivismo LGBT+ è illegale e punito con la detenzione politica, la tortura nelle carceri e, in alcuni casi, con la morte, come successe nel 2019 a Elena Grigorieva.

Un pensiero va a Elena e a tutti e tutte le attiviste ribelli che dall’Ucraina alla Federazione Russa subiscono quotidianamente la violenza omobitransfobica esercitata dai governi, fomentata dalla Chiesa e riprodotta dai gruppi neonazisti fra l’indifferenza dei cittadini e delle istituzioni.

Cristian Ruggieri

FONTI

ILGA-Europe, Ukraine war: LGBTI people in the context of armed conflict and mass displacement

ILGA-Europe, Medications needed by trans and intersex people, prepared by ILGA-Europe

Andriy Maymulakhin, Olexandr Zinchenkov, Andriy Kravchuk, Ukranian homosexuals and society: a reciprocation. Review of the situation: society, authorities and politicians, mass-media, legal issues, gay-community

Osservatorio Balcani e Caucaso, LGBT nel Donbass: ritorno all’era sovietica

 

Posted in Antimilitarismo, Contro l'eteropatriarcato, da Umanità Nova.


Morire non si può in aprile. L’assassinio di Teresa Galli e l’assalto fascista all’Avanti

8/4/22
Presentazione ore 19
presso Ateneo Libertario

Marco Rossi
MORIRE NON SI PUO’ IN APRILE
L’assassinio di Teresa Galli e l’assalto fascista all’Avanti!

Milano, 15 aprile 1919. A poche settimane dalla loro fondazione i Fasci di combattimento, assieme a gruppi armati di nazionalisti, militari e interventisti, mostrano la loro vocazione reazionaria, antiproletaria e sessista, sparando su un corteo di anarchici e “spartachisti”. Uccidono la giovane operaia Teresa Galli e altri due lavoratori e, successivamente, devastano la redazione del quotidiano socialista “Avanti!”. E’ il debutto dello squadrismo “tricolorato” e l’inizio della “controrivoluzione preventiva”, finanziata dal padronato e protetta dall’apparato statale.
A cento anni di distanza, la presente ricerca si propone di ricostruire antefatti, dinamiche, moventi del primo episodio della lunga guerra civile e di classe, mettendo in luce protagonisti, vittime, assassini, mandanti e controfigure, così come l’immutato ruolo della stampa nel fiancheggiare la repressione delle lotte sociali.
Nel vivo ricordo di Teresa Galli, la prima a morire per mano fascista, ma anche del suo essere stata dalla parte – ancora giusta – della barricata.

 

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Cartolina dal corteo antimilitarista 2/4/22


Opporsi alla guerra significa prima di tutto agire là dove la guerra comincia. Perché se senza dubbio la guerra è là dove cadono le bombe, è poi nei palazzi dei governi, nei comandi militari, nelle sedi degli industriali e nei grandi centri finanziari che si decide della vita di milioni di persone, è là che inizia la guerra.
Per questo oggi come antimilitarist* anarchici e anarchiche abbiamo attraversato le strade di Milano a partire da un concentramento in Piazza Affari. Il centro finanziario del paese, dove ha sede la Borsa, è certamente uno dei luoghi dove dobbiamo portare la nostra voce per indicare dove siano le responsabilità del massacro.

Posted in Antimilitarismo.


Errico Malatesta, Fronte unico proletario (1919-1923)

 

ERRICO MALATESTA
FRONTE UNICO PROLETARIO 1919-1923

ORE 18.00
Presentazione e dibattito
Il 27 dicembre 1919 le sirene nel porto di Genova chiamano gli operai ad accogliere Errico Malatesta, rientrato in Italia ad onta delle mene del governo. Nel proletariato italiano soffia un vento di rivoluzione. Malatesta si tuffa subito in un intenso giro di propaganda, accolto dovunque dall’entusiasmo popolare, e nel febbraio 1920 assume a Milano la direzione del quotidiano anarchico Umanità Nova. Esorta i proletari a unirsi in un fronte unico che inizi la rivoluzione espropriatrice e ad agire in modo autonomo ma coordinato, tanto nell’atto insurrezionale quanto all’indomani della rivoluzione. Nel giornale discute i problemi della ricostruzione post-rivoluzionaria, critica il bolscevismo e chiarisce la via libertaria al comunismo. Nel corso del 1920 le opportunità insurrezionali non mancano, culminando in settembre nell’occupazione delle fabbriche, ma le resistenze dei socialisti le vanificano. Con l’abbandono delle fabbriche e l’ingannevole conquista del “controllo operaio” inizia la parabola discendente del movimento operaio e la reazione che in due anni porterà il fascismo al potere. In ottobre Malatesta e altri sono arrestati. Sono processati e assolti solo nel luglio 1921 e Malatesta si trasferisce a Roma, nuova sede di Umanità Nova, dove si impegna invano nella lotta antifascista. Dopo l’avvento di Mussolini al potere e la chiusura del giornale Malatesta ritorna al suo lavoro di elettricista e continua sulla stampa superstite la chiarificazione delle idee anarchiche.

Ne parliamo insieme a
Francesca Tasca e Massimo Varengo

A seguire
MANGIAEBEVI LIBERTARIO
(a sottoscrizione per spese della sede)

Siamo uno spazio anarchico e autogestito: La salute di ognun* di noi è pratica condivisa. Porta con te la mascherina e presta attenzione!

 

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