Skip to content


Essere LGBT+ in contesto di guerra. Fra incudine e martello

 

Tra incudine e martello. Essere Lgbt+ in contesto di guerra.

In uno stato d’eccezione come quello bellico nessuno può sentirsi al sicuro, questo è indubbio. Per coloro che già in situazioni non emergenziali vivono una condizione socialmente svantaggiosa, però, la guerra è motivo di ulteriore oppressione: la comunità LGBT+ ucraina è un esempio calzante.

Stando alle informazioni raccolte e rese note dall’ILGA-Europe, sono molte le persone queer che non riescono ad abbandonare il paese a causa di difficoltà finanziare o logistiche dovute all’omobitransfobia dilagante nel Paese. Quando la solidarietà è rivolta solo o per lo più a chi viene riconosciuto come simile-a-me, all’Altro spetta un posto solo quando tutti gli altri lo hanno già occupato. In clima di guerra, più che in ogni altro momento, la solidarietà nazionale si arresta all’incontro con l’alterità. La minaccia dell’Altro si manifesta nella pelle nera di uno studente bloccato al confine, così come nei costumi poco conformi di chi, oltre la guerra, diserta la norma sessuale imposta.

L’orgoglio queer non è compatibile con l’orgoglio patriottico: più la distanza dalla norma è evidente e sfacciata, più grande è il disconoscimento. Non mi risulta che in Ucraina vi siano leggi che impediscono l’utilizzo di abiti considerati non conformi al proprio genere ma, dove non arriva l’autorità, arriva la morale del tuo concittadino. Il prezzo più caro lo pagano le soggettività transessuali e intersessuali: l’emergenza bellica aggiunge all’isolamento sociale e alla violenza consuetudinaria un più difficile accesso alle terapie ormonali e ad altre medicazioni fondamentali. Le organizzazioni trans locali provano a recuperare i medicinali cercando l’appoggio di Organizzazioni Non Governative, le tempistiche e gli esiti negativi vanificano però le loro fatiche. Il recupero dei farmaci ormonali è lungo e complesso perché le ONG dovrebbero ricevere le ricette mediche, pagare i medicinali e trasportarli a proprie spese in Ucraina. A rendere ancora più ostica la situazione è poi l’assenza dei medicinali di transizione nei paesi confinanti.

L’attivista e ricercatore ucraino Andriy Maymulakhin nel suo report sulla situazione delle persone ucraine LGBT+ individua fra le cause dell’omobitransfobia ucraina innanzitutto un’assenza di benessere materiale, la quale crea rabbia che gli abitanti sfogano spostando le colpe su soggetti e gruppi sociali già marginalizzati (la LGBT-fobia, difatti, dilaga al pari della xenofobia e del razzismo). Una seconda causa è senza dubbio data dalla forte morale religiosa su cui si fondano la famiglia tradizionale e lo Stato stesso. Qualsiasi esperienza alternativa a quella della famiglia eteropatriarcale, attenendoci al report dell’autore, non sembra concepibile dal cittadino ucraino, probabilmente anche e soprattutto a causa della mancanza di informazione rispetto a determinate tematiche. Gli ucraini non sono sufficientemente informati sulle persone di orientamento non eterosessuale. La maggioranza nutre percezioni stereotipate e prevenute sulle minoranze sessuali: giudica le persone LGBT+ sulla base delle “performance scandalose” che i personaggi dello show-business esibiscono in tv per lucrare sull’immagine comica e mainstream del queer. La famiglia catto-patriarcale censura il discorso queer nell’arena politica, tollera però l’omosessualità e persino una sua teatrale ostentazione nella performance televisiva: il vestiario eccentrico e poco virile dello showman in prima serata diverte la sacra famiglia, poiché non la sovverte ma la intrattiene: stuzzica la norma, ma non la rompe.

A ostracizzare le rivendicazioni queer dalla dimensione politica contribuiscono drasticamente la Chiesa e le sue reti organizzate di sostenitori che fomentano l’odio omobitransfobico sia nelle piazze sia sul web. A partire dal 2003, il movimento ucraino Love against homosexuality (Amore contro l’omosessualità) manifesta regolarmente nelle piazze per veicolare messaggi quali “l’omosessualità è AIDS”, “l’omosessualità è peccato” e per ricordare che “l’Ucraina è un paese cristiano”.

Quella ucraina rimane una società fortemente etero-cis-patriarcale dove nel corso degli ultimi venti anni i gruppi di estrema destra si sono sentiti in dovere di radicalizzare l’omobitransfobia all’interno della società, sebbene non vi sia mai stata nemmeno l’ombra di un’iniziativa capace di minacciare realmente l’ordine machista costituito (sarebbe assurdo pensare a un’iniziativa legislativa a beneficio della comunità LGBT+ laddove, stando a un’indagine del 2016 svolta dal Pew Research Center, l’86% della popolazione considera l’omosessualità socialmente inaccettabile).

Negli ultimi anni l’isolamento sociale della comunità LGBT+ nella società ucraina ha incoraggiato i gruppi neonazisti ad attaccare la comunità con ogni mezzo: se di giorno l’associazionismo pro-life manifesta nelle piazze contro una inesistente propaganda queer, di notte i militanti di estrema destra si sentono liberi di colpire con l’azione diretta i centri di aggregazione LGBT+ senza temere di mettere a repentaglio la vita delle persone presenti. Nel 2014, il Pomada (club gay di Kiev) è stato attaccato con petardi e granate fumogene da una ventina di neonazisti. Solo pochi mesi dopo, nello stesso anno, militanti provenienti dalla medesima area politica irruppero al Zhovten, il cinema più antico di Kiev, appiccandovi il fuoco durante la proiezione di un film a tema LGBT+.

Nonostante il vento sempre sfavorevole, un movimento LGBT+ è riuscito a strutturarsi in Ucraina e sembra pian piano maturare. Lo scorso anno il Pride di Kiev portò in piazza 7000 partecipanti, i quali si mobilitarono non senza preoccupazioni: se nell’ultima occasione i gruppi neonazisti e religiosi si riunirono in una piazza vicina per contestare le rivendicazioni queer, negli anni precedenti la marcia era stata interrotta dal lancio di razzi e petardi rinforzati con pezzi di metallo dai contro-manifestanti di estrema destra.

Nel corso dell’ultimo mese alcuni attivisti gay hanno messo da parte i cortei e preso in braccio le armi per rispondere militarmente all’invasione russa. In realtà una milizia armata LGBT+, la Brigata Unicorno, si formò già anni fa durante il conflitto nella regione del Donbass. Questa scelta, se non può essere condivisa da chi opta per la diserzione, può essere per lo meno spiegata prendendo in esame alcuni fattori.

L’Osservatorio Balcani e Caucaso ha dato voce ad alcuni ragazzi del posto che hanno raccontato come è cambiata la vivibilità delle persone LGBT+ nel Donbas nel corso degli ultimi anni. Sembra che prima della guerra la morale conservatrice condivisa dagli abitanti non rappresentasse un serio limite per la libertà di espressione e di aggregazione delle persone non eterosessuali e non cisgender. La situazione iniziò a prendere una piega inquietante nel 2014, quando alcuni leader separatisti cominciarono a diffondere nella regione tesi secondo cui “diventare omofobi dovrebbe essere compito di ognuno di noi [perché] se c’è la lobby degli omosessuali deve esserci anche una lobby degli omofobi”. In breve tempo, nelle aree controllate dai separatisti russi la violenza LGBT-fobica da consuetudine si è tradotta in legge scritta, mentre le relazioni omosessuali sono diventate reati perseguibili. Nella vicina Repubblica separatista di Doneck, un comma della Costituzione definisce che “non viene riconosciuta e permessa alcuna forma di unione perversa tra persone dello stesso sesso e qualsiasi [di tali unioni] è soggetta a penalità da parte della legge”.

Le asprissime discriminazioni che colpiscono i generi e le sessualità dissidenti nelle aree controllate dai separatisti filorussi non sono che un riflesso della repressione messa in atto da Putin nella Federazione Russa, equiparabile benissimo a quella di un regime fascio-islamico. La legge putiniana contro la propaganda gay rende impossibile lo svolgimento di qualsiasi attività volta alla tutela delle minoranze sessuali: ogni tentativo di espressione viene denunciato come “attività orientata verso la diffusione non controllata di informazioni capaci di avere un’influenza negativa sulla salute, lo sviluppo morale e spirituale e in particolare di formare una rappresentazione deformata del valore sociale legato agli orientamenti sessuali tradizionali e non tradizionali, presso persone che non hanno, a causa della loro età, la possibilità di valutare in modo autonomo e critico una tale informazione”. Insomma, è il sogno dell’associazionismo pro-life di casa nostra che, nella Federazione Russa, rappresenta la realtà: una realtà dove l’attivismo LGBT+ è illegale e punito con la detenzione politica, la tortura nelle carceri e, in alcuni casi, con la morte, come successe nel 2019 a Elena Grigorieva.

Un pensiero va a Elena e a tutti e tutte le attiviste ribelli che dall’Ucraina alla Federazione Russa subiscono quotidianamente la violenza omobitransfobica esercitata dai governi, fomentata dalla Chiesa e riprodotta dai gruppi neonazisti fra l’indifferenza dei cittadini e delle istituzioni.

Cristian Ruggieri

FONTI

ILGA-Europe, Ukraine war: LGBTI people in the context of armed conflict and mass displacement

ILGA-Europe, Medications needed by trans and intersex people, prepared by ILGA-Europe

Andriy Maymulakhin, Olexandr Zinchenkov, Andriy Kravchuk, Ukranian homosexuals and society: a reciprocation. Review of the situation: society, authorities and politicians, mass-media, legal issues, gay-community

Osservatorio Balcani e Caucaso, LGBT nel Donbass: ritorno all’era sovietica

 

Posted in Antimilitarismo, Contro l'eteropatriarcato, da Umanità Nova.


Morire non si può in aprile. L’assassinio di Teresa Galli e l’assalto fascista all’Avanti

8/4/22
Presentazione ore 19
presso Ateneo Libertario

Marco Rossi
MORIRE NON SI PUO’ IN APRILE
L’assassinio di Teresa Galli e l’assalto fascista all’Avanti!

Milano, 15 aprile 1919. A poche settimane dalla loro fondazione i Fasci di combattimento, assieme a gruppi armati di nazionalisti, militari e interventisti, mostrano la loro vocazione reazionaria, antiproletaria e sessista, sparando su un corteo di anarchici e “spartachisti”. Uccidono la giovane operaia Teresa Galli e altri due lavoratori e, successivamente, devastano la redazione del quotidiano socialista “Avanti!”. E’ il debutto dello squadrismo “tricolorato” e l’inizio della “controrivoluzione preventiva”, finanziata dal padronato e protetta dall’apparato statale.
A cento anni di distanza, la presente ricerca si propone di ricostruire antefatti, dinamiche, moventi del primo episodio della lunga guerra civile e di classe, mettendo in luce protagonisti, vittime, assassini, mandanti e controfigure, così come l’immutato ruolo della stampa nel fiancheggiare la repressione delle lotte sociali.
Nel vivo ricordo di Teresa Galli, la prima a morire per mano fascista, ma anche del suo essere stata dalla parte – ancora giusta – della barricata.

 

Posted in Ateneo Libertario.


Cartolina dal corteo antimilitarista 2/4/22


Opporsi alla guerra significa prima di tutto agire là dove la guerra comincia. Perché se senza dubbio la guerra è là dove cadono le bombe, è poi nei palazzi dei governi, nei comandi militari, nelle sedi degli industriali e nei grandi centri finanziari che si decide della vita di milioni di persone, è là che inizia la guerra.
Per questo oggi come antimilitarist* anarchici e anarchiche abbiamo attraversato le strade di Milano a partire da un concentramento in Piazza Affari. Il centro finanziario del paese, dove ha sede la Borsa, è certamente uno dei luoghi dove dobbiamo portare la nostra voce per indicare dove siano le responsabilità del massacro.

Posted in Antimilitarismo.


Errico Malatesta, Fronte unico proletario (1919-1923)

 

ERRICO MALATESTA
FRONTE UNICO PROLETARIO 1919-1923

ORE 18.00
Presentazione e dibattito
Il 27 dicembre 1919 le sirene nel porto di Genova chiamano gli operai ad accogliere Errico Malatesta, rientrato in Italia ad onta delle mene del governo. Nel proletariato italiano soffia un vento di rivoluzione. Malatesta si tuffa subito in un intenso giro di propaganda, accolto dovunque dall’entusiasmo popolare, e nel febbraio 1920 assume a Milano la direzione del quotidiano anarchico Umanità Nova. Esorta i proletari a unirsi in un fronte unico che inizi la rivoluzione espropriatrice e ad agire in modo autonomo ma coordinato, tanto nell’atto insurrezionale quanto all’indomani della rivoluzione. Nel giornale discute i problemi della ricostruzione post-rivoluzionaria, critica il bolscevismo e chiarisce la via libertaria al comunismo. Nel corso del 1920 le opportunità insurrezionali non mancano, culminando in settembre nell’occupazione delle fabbriche, ma le resistenze dei socialisti le vanificano. Con l’abbandono delle fabbriche e l’ingannevole conquista del “controllo operaio” inizia la parabola discendente del movimento operaio e la reazione che in due anni porterà il fascismo al potere. In ottobre Malatesta e altri sono arrestati. Sono processati e assolti solo nel luglio 1921 e Malatesta si trasferisce a Roma, nuova sede di Umanità Nova, dove si impegna invano nella lotta antifascista. Dopo l’avvento di Mussolini al potere e la chiusura del giornale Malatesta ritorna al suo lavoro di elettricista e continua sulla stampa superstite la chiarificazione delle idee anarchiche.

Ne parliamo insieme a
Francesca Tasca e Massimo Varengo

A seguire
MANGIAEBEVI LIBERTARIO
(a sottoscrizione per spese della sede)

Siamo uno spazio anarchico e autogestito: La salute di ognun* di noi è pratica condivisa. Porta con te la mascherina e presta attenzione!

 

Posted in Ateneo Libertario.


Manifestazione: contro Eni, le guerre e chi le arma

Contro tutte le guerre e chi le arma. Contro le politiche guerrafondaie dell’ENI.
L’Italia è in guerra. I governi che si sono succeduti hanno coperto le operazioni belliche tricolori sotto un manto di ipocrisia. Missioni umanitarie, operazioni di polizia internazionali hanno travestito l’invio di truppe sui fronti di guerra in Somalia, Libano, Serbia, Iraq, Afganistan, Libia. Quest’estate, per la prima volta in quarant’anni un ministro della Difesa, in occasione del rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero, ha rivendicato spudoratamente le avventure neocoloniali delle forze armate come strumento di tutela degli interessi dell’Italia. Ben 18 delle 40 missioni militari all’estero sono in Africa nel triangolo che va dalla Libia al Sahel sino al golfo di Guinea. Sono lì per fare la guerra ai migranti diretti in Europa e per sostenere l’ENI. La bandiera gialla con il cane a sei zampe dell’ENI accompagna il tricolore issato sui mezzi militari. Le multinazionali energetiche come l’ENI e le banche producono guerre e saccheggio ambientale. La guerra viene progettata, organizzata, condotta da generali senza divisa e stellette, quelli che in giacca e cravatta siedono nei consigli d’amministrazione delle multinazionali insieme ai loro strapagati
consulenti. Sono loro che lasciano ad altri il “lavoro sporco” mentre pianificano una guerra invisibile, che apparentemente non distrugge, non sparge sangue. Il fronte non è solo sui campi di battaglia ma passa attraverso le nostre città e le nostre vite. Un fronte invisibile, solo apparentemente silenzioso, ma che ogni giorno presenta il bollettino di caduti che hanno tanti volti. Il volto della classe lavoratrice, con il carovita e il progressivo prelievo dai salari per finanziare le spese militari ormai senza limite. Il volto delle
giovani generazioni ripagate con la precarietà, con salari che bastano solo a sopravvivere. Il volto dell’ambiente devastato per alimentare la macchina della produzione. Essere in piazza significa denunciare tutto questo e lottare per una trasformazione sociale radicale che investa tutte e tutti, umani e non umani, per costruire un presente ed un futuro senza sfruttamento, oppressione, guerre e saccheggio dell’ambiente. Contro informare, organizzarci e lottare sono le nostre armi. Le armi della dignità delle persone e della coscienza antiautoritaria di classe. Il conflitto imperialista tra la NATO, che mira a continuare l’espansione ad est cominciata dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, e la Russia, che, dopo decenni di arretramento, ha deciso di passare al contrattacco occupando l’Ucraina, ha causato un grande balzo in avanti della propaganda militarista. Draghi ha deciso un ulteriore aumento della spesa militare e l’invio di truppe sul fronte est della NATO. 500 militari, scelti tra gli incursori della Marina, Col Moschin, Forze speciali dell’Aeronautica e Task Force 45, si vanno ad aggiungere ai 240 alpini in Lettonia e i 138 uomini dell’Aeronautica in Romania. Nel Mar Nero ci sono la fregata FREMM “Margottini” e il cacciamine “Viareggio”, oltre alla portaerei “Cavour” con i cacciabombardieri F-35. Noi non ci stiamo. Noi non ci arruoliamo né con la NATO, né con la Russia. Rifiutiamo la retorica patriottica e nazionalista, diretta emanazione della logica patriarcale, come elemento di legittimazione degli Stati e delle loro pretese espansionistiche.
L’antimilitarismo, l’internazionalismo, il disfattismo rivoluzionario sono stati centrali nelle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici sin dalle sue origini. Sfruttamento ed oppressione colpiscono in egual misura a tutte le latitudini, il conflitto contro i “propri” padroni e contro i “propri” governanti è il miglior modo di opporsi alla violenza statale e alla ferocia del capitalismo in ogni dove. Opporsi allo Stato di emergenza bellico, all’aumento della spesa militare, lottare per il ritiro di tutte le missioni militari all’estero, per la chiusura e riconversione dell’industria bellica, per aprire le frontiere a tutti i profughi, ai migranti e ai disertori è un concreto ed urgente fronte di lotta.
Il 2 aprile saremo quindi in piazza a denunciare le guerre scaturite dagli interessi delle multinazionali energetiche, dal mantenimento di apparati militari sempre più costosi e dalla devastazione dell’ambiente schiacciato dalla logica feroce del profitto. Per indicare in modo chiaro i responsabili manifesteremo nelle piazze del potere finanziario da Piazza Affari a Piazza della Scala.
Contro le banche, i veri padroni del sistema energetico, i responsabili della rapina ambientale e del finanziamento dell’apparato industriale militare. Per fermare le guerre non basta un no. Bisogna mettersi di mezzo. A partire dalle nostre città.
Sciopero generale, boicottaggio e blocco delle basi militari e delle fabbriche di morte!

Appuntamento per sabato 2/4 h.14.30 in piazza Affari a Milano

ASSEMBLEA ANTIMILITARISTA

Posted in Antimilitarismo.


Assemblea Non una di meno 30/03

Non una di Meno Milano si riunisce in assemblea, per poter continuare costruire il percorso transfemminista contro la guerra e ogni forma di violenza strutturale di genere.

– h.19: accoglienza
– h. 19.30: inizio assemblea

ordine del giorno (work in progress):
– proseguiamo la nostra riflessione #stopwar a partire da una prospettiva femminista e transfemminista
– come ci organizziamo?
* momenti e spazi di ragionamento oltre le assemblee operative
*dialogo e confronto tra le soggettività che partecipano al percorso di NUDM
– prossimi eventi e appuntamenti
– varie ed eventuali

dove?
* in presenza @ Ateneo Libertario, viale Monza 255
* online: scrivi a nonunadimenomilano@gmail.com per ricevere il link

Posted in Contro l'eteropatriarcato.


Verso le radiose giornate di Maggio? Il militarismo in azione.

Verso le radiose giornate di Maggio? Il militarismo in azione.L’antica affermazione di Eschilo che “in guerra la prima vittima è la verità” può senz’altro valere in questi tempi di uso massiccio della robotizzazione del lavoro giornalistico e del monopolio informativo ad opera delle agenzie di stampo governativo anche se, in realtà, la verità è sempre nell’occhio del mirino nella società del privilegio e della gerarchia. Comunque questa frase si conferma come utile elemento d’orientamento nel marasma di articoli, interventi, talk show che ci viene quotidianamente proposto. Non aiutano nemmeno i social dove le riflessioni sono sempre più rare nel frastuono dei tifosi dell’uno o dell’altro schieramento.

La necessità di tutte le parti in causa, sia di prima sia di seconda linea, è quella di disorientare il nemico, di bombardarlo di dati falsi o fuorvianti; in più, in ogni conflitto è assolutamente necessario compattare la propria parte e disgregare l’opposizione.

La tecnica odierna, lo sappiamo tutti e tutte, consente manipolazioni di ogni sorta, creazioni di filmati ad hoc, riproposizione di materiale “vecchio” magari ripescato da qualche archivio di guerre precedenti. Insomma le fake news si sprecano ma questo non dovrebbe stupirci più di tanto. Come non ci dovrebbe stupire il fatto che la comunicazione, con il passare dei giorni, diventi sempre più a senso unico e sempre più aggressiva nei confronti di chi non si allinea al mantra dominante, in occidente come in oriente.

Pari pari alle indicazioni che troviamo sui mezzi pubblici – non disturbate il manovratore o il conducente – ci viene in buona sostanza intimato di non disturbare coloro che ci stanno portando a danzare sul filo del rasoio, come se a tagliarsi fossero loro e non noi. Non li vedete come si sorridono e si stringono la mano nei summit quelli che dovrebbero trovare una soluzione al tragico conflitto in atto? Il fatto è che gli appartenenti alle classi dirigenti si conoscono e si frequentano tra loro e spingono le classi subalterne – che invece non si frequentano e raramente si conoscono – a massacrarsi vicendevolmente.

I plurimiliardari russi e ucraini, i cosiddetti oligarchi, che stanno dietro questa guerra, si conoscono benissimo, vengono tutti da quell’immensa rapina delle aziende statali operata allo scioglimento dell’Unione sovietica, come pure si conosce una buona parte della gerarchia statale dei rispettivi paesi. Sono i soldati di leva russi, i coscritti ucraini, i proletari e le proletarie di entrambi i paesi a non riconoscersi tra loro come vittime sacrificali di questa guerra, infame come tutte le guerre, perché se lo facessero saprebbero benissimo da che parte rivolgere le armi e in tal caso l’invio di armi e munizioni, oltreché di corpi, sarebbe più che salutare.

Dobbiamo essere chiari: quello in corso è un conflitto tra stati, asimmetrico quanto si vuole, ma sempre tra stati. Sicuramente c’è un aggressore, la Federazione Russa, violento e sanguinario come tutti gli aggressori, che conduce una guerra d’invasione ben sapendo che l’aggredito può solo difendersi senza essere in grado di portare un benché minimo attacco al territorio russo. Sicuramente si tratta di una guerra impari, il cui prezzo lo sta pagando soprattutto la popolazione ucraina qualunque sia l’idioma preferito nel quale si esprime.

Sarebbe però semplicistico addossare la responsabilità della guerra esclusivamente a una sola parte. Il fatto è che da decenni, invece di cogliere i frutti derivanti dalla fine della “guerra fredda” che avrebbero dovuto portare ad una diversa impostazione dei rapporti internazionali, si è continuato a perseguire la politica dell’aumento degli armamenti, del loro perfezionamento, in funzione di una sempre migliore organizzazione della macchina militare.

D’altronde il feticcio della crescita economica permanente da parte di tutti i protagonisti della scena mondiale ha bisogno di nutrirsi con un continuo dispendio di risorse energetiche e un approvvigionamento continuo delle materie prime e delle terre rare indispensabili alla digitalizzazione e alla transizione energetica, fondamenti dello sviluppo industriale e quindi della ricchezza nei prossimi decenni. Sono cose però la cui disponibilità è in poche parti del mondo.

Ogni stato quindi, in quanto espressione concreta – in forma politica – del privilegio, deve operare per garantirsi un posto al sole nella competizione internazionale. Il raggiungimento di questo obiettivo non può conseguirsi che tramite la forza militare: nato e sviluppatosi tramite la potenza delle armi, ad esse deve continuamente rifarsi per potere affermare la proprie volontà. Lo stato, qualunque forma assuma, è sempre l’oppressione organizzata a vantaggio delle classi dirigenti. Questo come valeva ieri vale a maggior ragione anche oggi in tempi di globalizzazione dei mercati, dove le varie consorterie politiche ed economiche si servono del sistema statale in forma flessibile e modulare per il mantenimento e l’accrescimento dei loro privilegi. Ecco allora il rafforzamento di ogni stato in chiave repressiva e di controllo per stroncare ogni possibile ribellione interna, ecco l’alleanza di stati per garantirsi lo “spazio vitale” nei confronti di altri stati.

Non cogliere questo confronto in atto tra i principali protagonisti di un mondo ormai multipolare ci fa ripiegare in una visione semplicistica di quanto sta accadendo. Il martellamento continuo che la gran parte dei media sta facendo sul conflitto in corso vuole costringerci nel vicolo cieco dello schierarsi per poi mobilitarci sul fronte di guerra, anche se noi siamo già schierati a fianco della popolazione sofferente, per la cessazione immediata dei combattimenti, per il ritorno degli eserciti nelle rispettive caserme. Il martellamento però continua: prendiamo, per esempio, l’utilizzo che è stato fatto in questi giorni di una circolare dello Stato maggiore della Difesa, presa a pretesto per titolare i giornali con la notizia che l’Italia si sta mobilitando, accelerando di fatto la militarizzazione in corso e prefigurando una diretta scesa in campo dell’esercito italiano.

In realtà la circolare ha un altro scopo di più lungo profilo, cioè quello di battere cassa per avere più quattrini, più risorse per alimentare l’intera struttura che campa sulla tassazione dei cittadini e sui tagli ai servizi sociali. Quale momento più opportuno per esigere più fondi dallo stato? Ammiragli e generali hanno decodificato il messaggio dicendo che tutte le armi (eccetto probabilmente i carabinieri, da sempre fiore all’occhiello dell’ordine statale) sono in sofferenza di militi (ce ne vogliono di più), di preparazione (cosa ci stanno a fare a “presidiare” le vie cittadine invece di addestrarsi?), di mezzi (la solita carenza di manutenzione). Prontamente il parlamento ha risposto al grido di dolore con le stellette impegnando il governo a incrementare le spese per la difesa e portarle al 2% del prodotto interno lordo. In soldoni vuol dire dai 68 milioni di spesa al giorno ai 104. Chi ne pagherà le conseguenze è presto detto: sanità, scuola, cultura…

I grandi media, più militaristi dei militari, vogliono la prima linea e guai a chi la pensa diversamente. Andiamo a leggere, a questo proposito, quanto in questi giorni di guerra hanno scritto e proclamato in tanti: illustri storici, brillanti giornalisti, filosofi, e tanti leoni da tastiera in difesa dei valori “morali”, storici e culturali dell’Europa nei confronti della barbarie di Putin e dei suoi accoliti. Fiumi di retorica per occultare un fatto incontestabile: l’ipocrisia delle tanto sbandierate democrazie dell’occidente.

In cinque anni in Yemen sono morte 337mila persone, tra le quali 10mila bambini. Ne avete mai visto uno in televisione? Ebbene la mattanza è ad opera di uno stato come l’Arabia Saudita, le cui credenziali democratiche – nonostante gli elogi renziani – sono come minimo altamente discutibili e alle cui spalle ci sono altri difensori della moralità come gli USA, la Francia, la Gran Bretagna.

Sei milioni di palestinesi sono stati espulsi dai loro territori dalle politiche dello stato di Israele, definite da apartheid da un organismo come Amnesty International – di solito omaggiato quando guarda fuori dai cortili di casa nostra. Assassinii mirati, leggi razziste, distruzione di case, annessione di territori, tutto questo non ha meritato una sia pur minima sanzione dai garanti dei valori europei, tutti concentrati a dare valore alla molotov ucraina e a definire terroristica quella palestinese. Ci ricordiamo poi dell’Iraq? Della Siria? Dell’Afghanistan? Della Libia? Degli omicidi di civili definiti “danni collaterali”? Del diverso trattamento riservato ai profughi di guerra? Quanti si esprimono sui respingimenti alla frontiera polacca di chi arriva da guerre “altre”, generalmente “sporche”, le cui motivazioni sono solo apparentemente locali ma, dietro le quali, c’è sempre un interesse delle multinazionali e, dietro di loro, gli stati per l’accaparramento delle terre e delle materie prime: vuoti a perdere nel gelo dei boschi bielorussi utili solo, a suo tempo, a denunciare il cinismo del dittatore Lukashenko.

Meglio muoversi sull’onda delle emozioni umane sollecitate dagli schermi televisivi e redarguire quanti oggi non si vogliono mettere l’elmetto. Se hai solo dei dubbi sull’opportunità di inviare armi all’esercito ucraino diventi un sostenitore di Putin; se – come Donatella Di Cesare – vuoi comprendere tutte le motivazioni che stanno alla base della guerra ti meriti il disprezzo e il sarcasmo degli interlocutori, se – come Barbara Spinelli – ti permetti di riprendere quanto già affermato da analisti statunitensi sull’inopportunità dell’allargamento a Est della NATO diventi, come ha detto Riotta, una “putinversteher”, una sostenitrice di Putin.

C’è anche chi ricorda (Adriano Sofri, Flores d’Arcais) l’appello del settembre 1973 per una raccolta fondi destinata a fornire armi al MIR cileno dopo il colpo di stato di Pinochet, un’iniziativa che si rifaceva al 1936 spagnolo, indirizzata a galvanizzare una militanza convinta che a breve sarebbe giunta l’ora di imbracciare il fucile in un contesto di grande conflittualità sociale. Un’iniziativa con nessuna possibilità pratica di riuscita stante la forza e la violenza dell’esercito cileno e la mancanza di una tensione insurrezionale nel proletariato cileno paragonabile a quella spagnola. Inoltre la realtà sudamericana d’allora mai avrebbe consentito il passaggio di armi verso qualsiasi forma di resistenza.

Ci sono poi quelli (Luigi Manconi) che paragonano l’impegno dell’esercito ucraino alla resistenza contro il nazifascismo, mettendo sullo stesso piano un esercito di professionisti, di una gran parte di coscritti (dai 18 ai 60 anni) e di una parte di volontari, alle bande partigiane che in Italia si erano costituite dopo l’8 settembre 1943 e il disfacimento dell’esercito italiano. L’invio di armi all’Ucraina sarebbe quindi paragonabile ai lanci degli Alleati ai partigiani dimenticando alcuni fatti non certo secondari: le armi i primi partigiani se le erano procurate inizialmente (nel cuneese) dallo scioglimento della quarta armata proveniente dalla Francia, poi attaccando caserme, singoli militi e così via. Altre bande, come quelle di orientamento social-comunista, le armi dagli Alleati le avevano con il contagocce e comunque in funzione degli obiettivi bellici di inglesi e americani. Mi pare completamente fuori luogo come si possa fare un parallelo tra una realtà fatta di militari sbandati, di antifascisti storici, di reduci dalla Russia, di giovani renitenti alla leva repubblichina, di donne combattenti che hanno voluto e scelto di combattere per un mondo diverso e libero dal fascismo – non certo per una monarchia corresponsabile del disastro e per uno stato in disfacimento – con un esercito regolare, ampiamente foraggiato di armi di tutti i tipi da un’alleanza potente come la NATO.

Spiace dover leggere queste considerazioni e questi appelli da persone che hanno contribuito in maniera importante al miglioramento delle condizioni di vita di questo paese; nulla però come la guerra consente di capire a fondo la natura e il comportamento umano. Mentre si discetta di resistenza e si insultano i pacifisti aumenta il clima bellico nella logica della guerra totale. In Russia Putin minaccia e mette in galera, con accuse di tradimento, chi osa dissentire dal suo volere, arrivando a proclamare una specie di guerra santa in difesa dei valori sacri, patriarcali e omofobi, del risorto Impero di tutte le Russie; da noi si dà la caccia al demonio russo, sia che abbia il volto di uno stimato direttore d’orchestra sia quello di un brillante fotografo, Alexander Gronsky, cancellato da un festival di fotografia a Reggio Emilia anche se non poteva parteciparvi visto che è in galera in Russia in qualità di oppositore di Putin; per non parlare della delirante esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle paralimpiadi di Pechino o della censura del corso dedicato a Dostoevskij alla Bicocca di Milano.

La guerra nell’epoca contemporanea, dai conflitti mondiali in poi, non è più guerra di eserciti ma deve necessariamente essere totale, deve coinvolgere le popolazioni in prima linea. Più è estranea al sentire comune più deve trasformarsi in una lotta al male assoluto, al nemico trasformato in “mostro”. Se si capissero invece le reali motivazioni che stanno dietro ogni guerra, cadrebbe ogni maschera e il re apparirebbe nudo.

Dovrebbero far riflettere le recenti dichiarazioni di Wess Mitchell, già assistente Segretario di Stato USA per gli Affari europei ed euroasiatici dal 2017 al 2019: “La guerra dimostra che l’ordine mondiale è entrato in una fase caotica. Le relazioni tra potenze stanno mutando a causa dell’ascesa cinese. (…) La Cina (…) necessita ancora di tre o quattro anni per raggiungere la sofisticatezza militare necessaria a prevalere in un conflitto. Washington dovrebbe sfruttare questa finestra di tempo per infliggere a Mosca dei costi altissimi (…). L’Ucraina è il cuore di questa strategia. Gli Stati Uniti devono utilizzarla per sfibrare, prosciugare e impoverire la Russia, organizzando approvvigionamenti militari continuativi alle forze locali (…). Dovremmo avviare un programma di armamento a lungo termine per gli ucraini, così come facemmo negli anni ottanta con i mujahidin contro l’URSS. (…) L’Ucraina è un’opportunità strategica per l’Occidente (…).” [Limes, 2/2022]

La guerra come opportunità, i morti come opportunità, i bambini e le bambine come opportunità, l’intera popolazione in prima linea come opportunità.

Nel Marzo 1915 un gruppo di 37 esponenti del movimento anarchico internazionale stilarono a Londra un Manifesto Internazionale Anarchico contro la Guerra, in esso vi è scritto: «… per gli anarchici non vi è mai stato, né vi è oggi alcun dubbio (e gli orribili avvenimenti attuali rafforzano tale convinzione) che la guerra è in permanente gestazione nell’odierno sistema sociale. Il conflitto armato, ristretto o allargato, coloniale o europeo, è la conseguenza naturale, l’inevitabile e fatale risultato di un regime che si basa sulla diseguaglianza economica dei cittadini e sullo sfruttamento dei lavoratori; d’un regime che riposa sul selvaggio antagonismo degli interessi, e pone il mondo del Lavoro sotto la stretta e dolorosa dipendenza di una minoranza di parassiti che tengono nelle loro mani il potere politico ed economico. (…) Il compito degli anarchici, nella presente tragedia, qualunque possa essere il luogo e la situazione in cui si trovino, è di continuare a proclamare che c’è una sola guerra di liberazione: quella che in ogni paese è sostenuta dagli oppressi contro gli oppressori, dagli sfruttati contro gli sfruttatori. Il nostro compito è di spingere gli schiavi a ribellarsi contro i loro padroni. L’azione e la propaganda anarchica devono assiduamente e con perseveranza mirare a indebolire e disgregare i vari stati, a coltivare lo spirito di rivolta ed a sollevare il malcontento nei popoli e negli eserciti».

Non mi pare che ci sia motivo per mutare questo impegno.

Massimo Varengo

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


Guerra, energia, capitalismo

Guerra, energia, capitalismo

Quanto in corso nell’est europeo mette sotto i riflettori diverse questioni, tra le quali il rapporto tra guerra ed energia, dove i media non sempre colgono le complessità di questa relazione. La vicenda russo-ucraina fa emergere due nodi fondamentali, uno geopolitico e l’altro economico, nei quali l’energia gioca un ruolo decisivo. Per quanto riguarda l’aspetto geopolitico i mezzi d’informazione tendono a sottolineare solo la dipendenza della UE dalle fonti energetiche russe, gas in particolare. Il dibattito è quindi rivolto alla ricerca di altri fornitori internazionali (la recente visita di Di Maio unitamente all’ad di ENI De Scalzi in Qatar ne è un esempio) o altre fonti energetiche, dal carbone al nucleare alle rinnovabili. Vi è un aspetto invece trascurato, ma decisivo.

Il conflitto ripropone all’Europa un tema centrale, quello di trovare nello scacchiere internazionale un proprio autonomo spazio di là delle tradizionali alleanze politiche e militari atlantiche. L’Europa, ancora una volta, non ha una posizione unitaria, si presenta in ordine sparso nella gestione diplomatica e militare del conflitto. Solo alcuni leader, Macron e Scholz, hanno un filo diretto con Putin, mentre i referenti politici degli altri paesi rimangono in secondo piano o sono del tutto assenti. Anche gli aiuti, compresi quelli bellici, all’Ucraina sono frutto di iniziative di singoli paesi. Emerge in modo chiaro e netto la mancanza di una visione condivisa europea.

Se la UE non è compatta nell’affrontare la crisi non è solo la risultanza di una incompiuta unità politica ma è legata a doppio filo alla questione energetica. La dipendenza dalle fonti fossili russe (solo per il gas la UE importa il 45% del suo fabbisogno dalla Russia, 25% la quota del petrolio), non è equamente divisa fra i 27 stati membri. Italia e soprattutto Germania ne dipendono in modo decisivo: l’Italia importa dalla Russia il 40% del gas, la Germania ne dipende per il 50%, mentre altri, ad esempio la Francia, non hanno significativi legami energetici con Mosca. Uno degli obiettivi strategici di Putin è quello di dividere l’Europa e l’arma energetica è quella più efficace.

La storia del Nord Stream 2 – il più importante progetto di collegamento energetico tra Russia e Germania (temporaneamente sospeso nello scorso mese dal cancelliere Scholz) – ci offre un significativo quadro di come gli interessi del capitalismo europeo, e in particolare tedesco, non abbiano una posizione unitaria nei confronti di Mosca. Il gasdotto, sebbene di proprietà della società russa Gazprom (uno dei leader mondiali del settore fossile,) è stato finanziato da cinque società europee (Uniper, Wintershall Dea, Shell, Omv ed Engie) e rappresenta, sotto il profilo geopolitico, un saldo legame con Putin. In Germania è da tempo attiva una lobby del gas capitanata dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che al giugno 2020 sedeva nei board della compagine petrolifera russa Rosneft e di Nord Stream AG, società che aveva costruito la prima pipeline Nord Stream 1.

Se la storia delle due pipeline Nord Stream ci dicono molto sulle relazioni di dipendenza di una parte del capitalismo occidentale con il Cremlino, dall’altro lato una parte importante dell’occidente, non solo europeo ma “atlantico”, sta prendendo posizioni radicalmente avverse a Putin, in particolare Gran Bretagna e Norvegia. L’inglese BP (British Petroleum, una delle maggiori multinazionali del settore energetico) e il più importante fondo sovrano mondiale Norges (gestito dalla banca centrale norvegese) hanno dismesso la loro partecipazione azionaria in Rosfnet, la principale compagnia energetica russa, innestando un effetto domino. Equinor, il gigante dell’energia norvegese, ha dichiarato che non ha più intenzione di investire in Russia.

Non è un caso che le decisioni radicali di BP e Norges siano facilitate dalla minore dipendenza energetica da Mosca a differenza di alcuni paesi europei. Ancora una volta l’energia divide non solo la UE ma anche le alleanze atlantiche: le contraddizioni europee sono emerse in modo evidente anche nell’incontro di capi di governo della UE tenutosi a Versailles tra il 10 e l’11 marzo. La Francia ha proposto un debito comune europeo, in sintesi un Recovery Fund bellico-energetico; l’idea è stata divisiva, con l’Italia favorevole e contrari Germania e Olanda. Di fatto si ripropone, come per altre questioni – vedi il “ritorno” del nucleare, il progetto di un esercito europeo e l’ipotesi di una nuova “Agenzia del debito Europeo” – un asse franco-italiano in contrapposizione ai paesi nord UE. Anche l’idea di nuove sanzioni nei confronti di Mosca non ha trovato piena condivisione. In sintesi la questione energia-geopolitica ci consegna un occidente diviso e di fatto poco incisivo, pressoché inerte nel trovare soluzioni comuni.

Pure per l’aspetto economico del rapporto guerra-energia la narrazione dei media è alquanto approssimativa. L’informazione fa risalire alla vicenda bellica la causa dello straordinario aumento dei prezzi energetici e delle materie prime: ricordiamo che in un anno gli aumenti sono stati del +131% per la luce e del +94% per il gas naturale. La relazione guerra-energia-rialzo dei prezzi ci conduce a valutazioni che esulano direttamente dalle vicende belliche in corso ma coinvolgono altri aspetti: i conflitti non si svolgono solo sui campi di battaglia ma anche e soprattutto nelle sedi delle banche centrali e nelle principali istituzioni finanziarie. La moneta, i tassi di interesse, gli strumenti finanziari tra i quali i futures hanno la medesima valenza dei più sofisticati ed avanzati sistema d’arma – tra la guerra e l’energia emerge un altro attore, il vero protagonista: la finanza.

Occorre sfatare un luogo comune, divulgato dai media e dagli opinionisti al soldo del sistema. I prezzi dell’energia, ai quali bisogna associare quello delle materie prime e generi alimentari, non si sono impennati solo a causa delle recenti vicende belliche ma sono il frutto di speculazioni finanziarie. I prezzi internazionali delle materie prime sono esplosi sulla spinta dei titoli finanziari o meglio dei futures, strumenti che, per le loro caratteristiche tecniche, moltiplicano all’infinito i prezzi senza che vi sia un reale, concreto, aumento della domanda di beni o viceversa di scarsità dell’offerta. In altre parole il prezzo sfugge alla logica della domanda e dell’offerta, non riflette più lo scambio di beni fisici, segue invece le contrattazioni finanziare che a loro volta sono influenzate dai futures – vere e proprie “scommesse” sulla previsione dei prezzi di beni.

Se dall’inizio della pandemia vi è stata una certa difficoltà a rifornire di merci il mercato globale, per le ovvie e note problematicità nella produzione e trasporto di merci, non vi è oggi alcuna giustificazione per l’aumento esponenziale delle bollette del gas, dell’elettricità o del rifornimento di carburanti. Ad oggi non vi è stata alcuna sospensione delle forniture di oro nero o blu da parte della Russia verso l’Europa che possa giustificare un rialzo drammatico dei costi energetici che sta drenando le risorse, già scarse, nelle tasche dei produttori (in contemporanea si stanno alzando a dismisura i profitti delle imprese energetiche). Né tantomeno sono stati sospesi i pagamenti, via Swift, a Gazprom: in sintesi la Russia rifornisce l’Europa e questa fa affluire nelle tasche di Putin un miliardo di euro al giorno. Gli effetti del conflitto, nonché delle “dure” sanzioni occidentali non colpiscono, al momento, il flusso vitale per i due contendenti principali, Occidente e Russia: l’energia fluisce da est a ovest e da qui si provvede con puntualità quotidiana a saldare il conto, contribuendo, oltretutto, in modo deciso a finanziare i costi della guerra.

È quindi del tutto evidente che l’esplosione dei prezzi non dipende dal mercato “fisico” ma è figlia della speculazione, innanzitutto dei titoli energetici. L’esempio più chiaro lo si ha nella quotazione del brent WTI (petrolio estratto in Texas): il WTI sul mercato viene quotato tramite lo strumento dei contratti futures e interessa e influenza ben due mercati finanziari: New York Mercantile Exchange (NYMEX) ed International Exchange. Osservando l’andamento della quotazione WTI nel periodo 8 marzo-10 marzo vediamo che nel giro di soli tre giorni di mercato si è passati da un valore di 130 dollari al barile a 90 dollari.

In ogni caso il processo di finanziarizzazione dell’economia non è un fenomeno attuale ma ha preso piede dai primi anni del 2000 e sono cinque i passaggi fondamentali che hanno permesso la transizione dal capitalismo produttivo a quello speculativo finanziario. L’amministrazione Clinton, nel 1999, aboliva il Glass-Steall Act, (provvedimento del 1931 che separava le banche commerciali da quelle di investimento) e, soprattutto, si è introdotta nel mercato del credito la cartolarizzazione – insomma la possibilità di trasferire i crediti, quindi il loro rischio, in una miriade di titoli da vendersi a pioggia sul mercato. In poche parole si ribaltava il rischio dell’insolvenza del credito in capo alle banche e alle finanziarie su un esercito di piccoli investitori. Per ultimo i derivati, tra i quali i futures, hanno dismesso il loro compito originario di strumenti a copertura della fluttuazione dei cambi o dei prezzi per diventare degli autentici strumenti di “scommessa”, soprattutto per il mercato energetico e dei prodotti agricoli. I derivati hanno inoltre avuto un decisivo impulso da quello che è definita la “finanza ombra”, cioè la possibilità tecnica attraverso le piattaforme informatiche e l’utilizzo di algoritmi per un numero infinito di operatori di operare sul mercato finanziario in tempo reale. Si è in tal modo moltiplicato e velocizzato il numero delle transazioni finanziarie e quindi la possibilità di influenzare l’andamento dei prezzi. In poche parole il valore del prodotto fisico non dipende più solo dal reale scambio sul mercato (domanda e offerta) ma dalla previsione del suo valore.

Ultimo fattore decisivo per innescare la speculazione sui prodotti energetici è il mercato dei certificati dei crediti di carbonio. I produttori di energia elettrica, come stabilito dal protocollo di Kyoto, al fine di ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei settori energivori, devono approvvigionarsi, tramite aste, sul mercato delle quote necessarie per coprire il proprio fabbisogno di emissioni. Nel 2005 è stato istituito l’EU ETS il più grande mercato sistema internazionale per lo scambio di quote di emissione di carbonio. In sintesi le grandi aziende produttrici d’energia sono obbligate a comprare tali certificati per compensare l’emissione di CO2 che rilasciano nell’atmosfera: pagare per poter continuare a inquinare. Su tali mercati si è innestata la speculazione finanziaria tramite i futures influenzando in tal modo gli oneri delle società energetiche. Nell’arco di un anno dal marzo 2021 ad oggi la quotazione dei futures sui crediti in carbonio è più che raddoppiata contribuendo alla crescita dei costi energetici.

Le soluzioni proposte dai media per rompere il ciclo guerra-energia-aumento delle bollette sono solo risposte “tampone”: si va dal ritorno “temporaneo” del carbone, al ritorno invece stabile del nucleare, o incentivare lo sviluppo delle rinnovabili. Altra misura è la revisione del costo della bolletta, sgravandola da oneri quali il contributo per lo “smantellamento” delle centrali nucleari inattive.

Sgravare le bollette di tali oneri gioverebbe soprattutto a chi ha meno risorse: tali misure sono solo parziali e non affrontano il nocciolo del problema – la speculazione finanziaria. La soluzione sarebbe una sola: quella di ricondurre i derivati al loro scopo originario cioè quello della protezione della fluttuazione dei prezzi per operazioni reali. Va da sé che tale misura non verrà mai adottata da un sistema, quello capitalista, che in buona parte (soprattutto in occidente) ha “dismesso” gli investimenti e la produzione. Il profitto deriva da decenni dalla compressione dei salari e dalla ricerca del minor costo del lavoro (delocalizzazioni e proliferazione dei contratti a termine) nonché dalla speculazione finanziaria.

In conclusione la guerra nel suo rapporto con l’energia fa emergere le contraddizioni di un sistema che sta mostrando la corda e che non riesce più ad autoriformarsi. Costruire relazioni tra umani che non abbiano il profitto come fine è sempre meno utopico ma concreta alternativa.

Daniele Ratti

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.