Skip to content


Sostegno della FAI alla campagna antimilitarista

Contro le missioni militari all’estero, contro tutte le guerre!
Rafforziamo la lotta antimilitarista!

Negli ultimi mesi l’impegno bellico all’estero dell’Italia è ulteriormente aumentato con nuove missioni in particolare in Africa e nello scenario Ucraino.
Nello stesso tempo la militarizzazione interna fatta di militari nelle strade e controlli alle frontiere non accenna a diminuire mentre il complesso militare-industriale continua ad aumentare i propri profitti.
Per questo riteniamo centrale nei prossimi mesi sostenere e allargare le lotte antimilitariste nei vari territori: dalle mobilitazioni in Piemonte contro l’industria aereospaziale di guerra e alla candidatura di Torino a ospitare il progetto DIANA (Defence Innovation accellerator for north atlantic) della Nato alle lotte in Sardegna contro le basi militari e i poligoni, da quelle in Sicilia contro il Muos a quelle in Friuli contro le nuove caserme “green” dell’esercito e l’inquinamento prodotto dalle esercitazioni.
Importante è anche il contrasto alla crescente penetrazione della propaganda dell’Esercito nelle scuole e nelle università, non ultima la stipula di accordi per lo svolgimento dei PCTO in Sicilia presso le caserme.
Sosteniamo con forza le prossime iniziative promosse dall’Assemblea Antimilitarista il 19 marzo e il 2 aprile, entrambe a Milano, di denuncia del ruolo dell’Eni nel dettare la politica estera del governo italiano per accaparrarsi le risorse energetiche depredando e devastando i paesi del sud del mondo e il particolare l’Africa. E’ importante lottare contro le devastazioni ambientali causate dagli eserciti e dalle multinazionali da essi protette e creare intersezioni fra i movimenti ecologisti dal basso e l’antimilitarismo.
Oggi più che mai, anche di fronte ai venti di guerra che attraversano anche l’Europa, è necessario sviluppare e praticare l’antimilitarismo in ogni ambito della società.

Federazione Anarchica Italiana
Convegno del 19-20 febbraio 2022

Posted in Antimilitarismo, Comunicati.


Chiamata per una assemblea pubblica contro guerre e carovita

Posted in Ateneo Libertario, Comunicati, Lavoro.


Libertà per Ocalan, manifestazione a sostegno del popolo curdo

Posted in Ateneo Libertario.


Prossime tappe della campagna antimilitarista

L’assemblea antimilitarista tenutasi a Milano il 16 Gennaio ha accolto la proposta di articolare la prossima tappa antimilitarista con iniziative che si svilupperanno sul territorio di Milano.

Il dibattito, lo scambio di opinioni, tra i diversi gruppi politici e individualità che hanno dato vita all’assemblea antimilitarista ha avuto un momento di sintesi nell’individuare due temi centrali: il ruolo delle multinazionali energetiche, in particolare dell’Eni, come motore delle missioni internazionali militari e l’Africa come teatro principale della competizione economica e militare.

In tale prospettiva è emersa quindi la necessità di dare vita a due distinti momenti: un incontro previsto per il 19 marzo e un’iniziativa di piazza per il 2 aprile.

L’energia è diventata il momento centrale della “sicurezza” delle varie entità statali e quindi il solco entro il quale si è indirizzata e si svilupperà l’attività militare.

Le multinazionali energetiche sono in prima piano, in particolare l’Eni, storica presenza nel bacino del Mediterraneo e soprattutto in Africa. Per tale ragione riteniamo che sia centrale analizzare la questione energetica, le multinazionali di settore e, per quanto ci riguarda più da vicino, il peso specifico dell’Eni in tale contesto.

Eni, presenza storica nel continente africano, ha incentrato sempre più le attività nella sponda sud del Mediterraneo e Golfo di Guinea.

Il controllo del corridoio sahariano, il Sahel, diventa indispensabile per mettere in “sicurezza” le attività industriali e non è un caso che oltre metà delle missioni internazionali italiane sono attive in Africa.

L’incontro/convegno del 19 marzo si terrà presso il Laboratorio Occupato Kasciavit – Milano via San Faustino 64 – e verrà articolato in modo tale da consentire alle diverse soggettività presenti di esporre il loro punto di vista e la loro specifica attività.

Il momento di analisi, approfondimento e presa di coscienza del 19 Marzo sarà propedeutico all’iniziativa del 2 aprile.

Posted in Antimilitarismo, Comunicati.


Per continuare a lottare e a gioire insieme a noi

Siamo ormai alla soglia dei due anni di pandemia: un pezzo di vita che ci ha segnato e ci attraversa ancora quotidianamente, tra preoccupazioni e voglia di reagire, esigenza di tutela e autotutela e voglia / bisogno / necessità di rilanciare la lotta.
Eppure, tra lockdown e riunioni on line, assurdi green pass e spaventosi draghi, la “comunità”, umana e politica, che aderisce o simpatizza per la Federazione Anarchica Milanese e anima e partecipa alla vita dell’Ateneo Libertario ha continuato a vivere e a lottare, scendendo spesso in piazza e continuando ad organizzare quanti più possibili momenti di socialità.
In due quasi due anni di vicende che hanno cambiato e condizionato anche le relazioni e gli incontri tra esseri umani, paradossalmente ma non tanto, il gruppo di compagni e compagne che stabilmente tiene in vita il gruppo è persino aumentato, arricchendosi di contributi, spunti, energie, suggestioni di chi ha comunque visto in noi, anche in questa fase, un approdo accogliente. E tutti e tutte abbiamo provato a tener vivo il contatto anche con l’area più allargata di uomini e donne che vengono a discutere, a pensare, e anche a mangiare nella nostra sede.
L’elenco di ciò che abbiamo fatto in questi due anni è lungo: sin da subito in campo (per qualcuno anche con multe pesanti!) contro la gestione criminale della pandemia del governo Conte e dei serial killer della Regione Lombardia le iniziative, prima on line e appena possibile dal vivo, sono state davvero tante. Presentazioni di libri e riviste, dibattiti, incontri internazionalisti e anarcofemministi ma anche presenza in piazza: negli scioperi del sindacalismo di base e nelle lotte sui posti di lavoro, nella partecipazione attiva all’iniziativa che ha dato vita all’Assemblea Antimilitarista e alla manifestazione di Torino del 20 novembre (e che nei prossimi mesi continuerà con altri momenti di lotta e riflessione), fino alle scadenze, non rituali ma di memoria e di lotta, per non dimenticare la strage di piazza Fontana e l’assassinio del nostro compagno Giuseppe Pinelli.
Eppure, per fare queste cose, oltre alle forze umane occorre anche un posto dove farle e organizzarle. Da oltre 45 anni la sede di Viale Monza 255 è la casa, la nostra e di tutte le persone che la frequentano anche solo per qualche iniziativa. Una casa che abbiamo sempre voluto aperta e accogliente e che in diverse occasioni abbiamo provato ad abbellire e rendere più confortante. Ma anche una casa che costa e che tra affitto, bollette e tasse ci richiede un impegno mensile assai sostanzioso.
Abbiamo sempre pensato che una dimora comune potesse vivere solo se interamente autofinanziata, unico modo per non dover rendere conto a nessuno, se non a noi stessi, di ciò che facciamo e per sentirsi davvero protagonisti.
Ogni giorno lo stato italiano spende 70 milioni di euro per le spese militari, ogni mese tra riduzione del potere d’acquisto dei salari e tasse e balzelli vari, siamo da sempre regolarmente rapinati. Il resto va per la casa, i figli, la salute. Pagarsi il tempo libero è difficile per molti, figuriamoci una sede anarchica. Ma sappiamo anche che i nostri compagni e le nostre compagne hanno anche una generosità senza limiti, che spesso si è trasformata in gesti concreti.
Vi chiediamo di esserlo ancora e il più possibile in questo momento. Per dare una mano al pensiero, alla lotta, alla socialità e alle feste che nascono in viale Monza 255 e che vogliono, ancora oggi e ancora di più “contagiare” (una volta tanto in senso positivo) il mondo intero.
INVIACI IL TUO PREZIOSO CONTRIBUTO A:
POSTEPAY EVOLUTION
D’Errico Antonio Leonardo Giacomo
IBAN: IT41U3608105138258561158573

Posted in Ateneo Libertario, Comunicati.


Alleanza anarchica e queer

Come ogni proposta che sembri mettere in discussione la ricetta “Dio, patria e famiglia”, il ddl Zan è stato oggetto di un iter lunghissimo, principalmente a causa dell’ostruzionismo delle destre e delle pressioni esercitate dal mondo ecclesiastico: viene presentato il 2 maggio 2018, approvato alla Camera dei deputati il 4 novembre 2020 e bocciato al Senato il 27 ottobre 2021. Quando una certa fetta della politica ci racconta che esistono delle priorità rispetto alle rivendicazioni affettive e sessuali, ricordiamoci di queste tempistiche. Se le priorità del “popolo italiano” sono altre, allora chiediamoci perché i nostri cari delegati spendono anima e corpo per affossare ogni disegno di legge che offre il minimo sindacale alle persone LGBTQIA, investendo tempo ed energie che potrebbero usare per occuparsi di quelli che, a loro dire, sono i problemi di serie A.

Il percorso di cui è stato vittima il ddl Zan, difatti, ricorda ciò che accadde anni fa con il ddl Cirinnà. Il testo originario del disegno di legge, presentato il 19 dicembre 2013, prevedeva la regolamentazione delle unioni civili per coppie non eterosessuali e la possibilità di adottare il figlio del partner. Dopo 3 anni di osteggiamenti, l’11 maggio 2016, il disegno di legge venne approvato ma del testo originario rimase ben poco: venne dato il sì all’unione civile fra persone omosessuali ma furono eliminate la stepchild adoption e numerosi riferimenti al matrimonio, come l’obbligo di fedeltà. È doveroso sottolineare che, rimuovendo l’obbligo di fedeltà, i catto-fascisti non hanno certo voluto fare un favore alle coppie non eterosessuali. Si trattò di una mossa subdola con la quale i nostri preti ararono il terreno in vista di un futuro ancora indefinito: se mai un giorno dovesse comparire un disegno di legge che offre alle coppie non etero-normate italiane la possibilità di costruire una famiglia diversa da quella tradizionale, la destra cristiana potrà usare l’assenza dell’obbligo di fedeltà come cavillo utile a sostenere che la coppia non eterosessuale non è retta dai vincoli necessari per costituire una “vera famiglia” come quella fondata sull’amore eterosessuale.

Tornando ai fatti più recenti, in questi ultimi due anni abbiamo visto l’associazionismo LGBTQIA ‒ tendenzialmente quello liberale e marxista eterodosso ma non solo ‒ mobilitarsi con una certa tenacia in difesa dello Zan, o meglio, per moltopiùdiZan (questo era lo slogan ricorrente). D’altra parte, abbiamo visto anche la crescita di quella fetta di movimento che, per distinguersi dall’associazionismo gay mainstream, si definisce provocatoriamente LGBTQIACAB. Vi sono state piazze in cui, da Milano a Torino a Firenze, attivisti e attiviste queer si sono mobilitate contro l’etero-cis-patriarcato, senza però menzionare la legge firmata PD. Senza pretendere di rappresentare queste realtà politiche e le loro istanze, vorrei provare a intuire alcune delle criticità che hanno portato i gruppi queer più radicali a non inserirsi nell’onda del moltopiùdiZan.

Il ddl Zan esprimeva “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.” Per perseguire questi fini, lo Zan avrebbe innanzitutto esteso l’applicazione della legge Mancino, che punisce con la carcerazione i crimini d’odio fondati sul razzismo etnico, nazionale o religioso. Il Partito Democratico avrebbe quindi voluto integrare la legge del 1993 estendendo la reclusione a coloro che discriminano sulla base del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità.

Ora, io trovo che pensare di rispondere alla violenza omolesbobitransfobica affidandosi alla repressione punitiva di matrice statale presenti principalmente due criticità. Premetto che non condivido affatto l’idea di chi ha visto questo disegno di legge come un tentativo di reprimere la libertà di parola in nome del politicamente corretto. Libertà è una parola importante che non si può ridurre alla possibilità di urlare “ricchione”, “negro”, eccetera alle persone. Persino alcuni pseudo-compagni libertari eterosessuali (uso il maschile plurale non a caso) si sono sentiti minacciati dallo Zan, credendo che da un giorno all’altro lo Stato avrebbe potuto internare le persone per educarle al “nuovo pensiero egemonico della sinistra LGBT”.

Per rispondere agli allarmi deliranti di questi compagni vorrei ricordare che viviamo in una società dove l’unica famiglia possibile è quella eterosessuale, dove la tv di Stato censura le scene omoerotiche nei film trasmessi in prima serata, dove due persone omosessuali non sono ancora libere di camminare mano nella mano per strada senza subire aggressioni. Dunque, di quale “nuovo pensiero egemonico” stiamo parlando? L’unico pensiero egemonico è quello eterosessuale che regge lo Stato-Nazione. Se siamo anarchici militanti e vogliamo decostruire una proposta di legge fasulla, facciamolo, ma usando le giuste argomentazioni, non discorsi degni del Congresso delle famiglie di Verona.

Se la sinistra parlamentare vuole combattere la violenza etero-cis-patriarcale con la giustizia penale, bisogna innanzitutto ricordare che la prigione è una istituzione totale che riproduce e amplifica lo stesso machismo che, nella vita di tutti i giorni, opprime le persone non eterosessuali e non cisgender. Il carcere è uno spazio chiuso all’interno del quale vige una forte disparità di potere tra la popolazione carceraria e le guardie che la sorvegliano e disciplinano. In quello spazio chiuso e alienante, i detenuti imparano presto ad assimilare le logiche autoritarie che regolano la relazione verticale fra guardie e reclusi e a riprodurle orizzontalmente sui propri compagni. Lo sviluppo di una cultura penitenziaria basata sulla forza e sulla genuflessione verso chi ha più potere danneggia in particolar modo le persone LGBTQIA detenute, le quali sono spesso le prime vittime di questa violenza machista.

Nelle carceri maschili, il macho tende a sessualizzare, nonché ad oggettificare, i compagni di prigione che ritiene più femminili e, quindi, a suo parere più deboli. Questi schemi mentali sessisti e omofobici si ripercuotono sia sui detenuti omosessuali sia sui detenuti eterosessuali non conformi agli standard del maschio etero-cis normato, i quali diventano facili vittime di violenza sessuale da parte del singolo o del branco.

Per sottrarre i detenuti LGBTQIA alle aggressioni ricorrenti, alcune carceri ospitano delle sezioni destinate nello specifico a detenuti descritti come più vulnerabili. Tralasciando il fatto che non credo possano esistere spazi sicuri e civili all’interno di una istituzione totale, è doveroso ricordare che in tali sezioni speciali le condizioni di vita sono ancora più deprimenti. Difatti, essendo destinate ad un numero meno significativo di persone, queste aree ospitano meno servizi e minori opportunità creative e ricreative utili alla persona reclusa per non sfociare nella depressione, nella dissociazione e in altre forme di sofferenza psichica patologica.

Di là delle sezioni protette, se il carcere è, sulla base di quanto abbiamo visto, una istituzione machista, sessista ed etero-cis-patriarcale, trovo davvero irrazionale pensare che un detenuto colpevole di omolesbobitransfobia possa uscire dalla prigione come una persona aperta al prossimo e a riconoscere dignità a chi non è etero-cis normato.

Un altro aspetto critico della protezione statale riguarda la vulnerabilizzazione delle minoranze oppresse. In quanto persone anormali – nel senso di non conformi alla Norma ‒ dobbiamo riconoscere la nostra indubbia vulnerabilità, cioè la nostra maggiore esposizione alla violenza, sia istituzionale sia orizzontale. Questo bisogna ammetterlo. Tuttavia, tralasciando l’assurdità del chiedere protezione alle stesse autorità e istituzioni che per secoli ci hanno invisibilizzato, torturato e ucciso, temo che farci cullare dalle braccia di padre Stato possa esporci ad una rischiosa vulnerabilizzazione. (intesa come vulnerabilità indotta).

Come ricorda Judith Butler in L’Alleanza dei Corpiimperniare le rivendicazioni sul concetto di vulnerabilità può essere pericoloso dal punto di vista politico, in quanto apre ad una possibile politica paternalistica volta a naturalizzare le relazioni di disuguaglianza. Voglio dire che la vulnerabilità è un concetto strategico che può essere usato per attaccare una comunità (come fa il macho nelle carceri) oppure per proteggerla (come pensava di fare lo Zan).

Mi piacerebbe pensare ad una comunità LGBTQIA che riconosce la propria vulnerabilità (sistemica e, quindi, non naturale) per aprirsi a relazioni politiche interpersonali che si traducano in reti di tutela reciproca e di solidarietà mutualistica dal basso, senza chiedere protezione allo Stato. Sicuramente possiamo imparare molto dalle compagne anarchiche e femministe rivoluzionarie che, nei contesti più difficili dell’America latina, stanno tentando di costruire qualcosa di simile a ciò che io immagino.

Mobilitarsi in massa per supplicare la protezione dello Stato significa offrire pane per i denti di chi continua a descriverci come soggettività fragili e indifese per essenza. Il Senato stesso, in occasione del dibattito istituzionale sul ddl Zan, è stato il luogo in cui si è potuto dire di tutto sull’esistenza delle persone LGBTQIA: si va da chi ha associato l’omosessualità alla pedofilia, a chi ha sostenuto che se la transizione di genere fosse normale, allora Dio ci avrebbe permesso di cambiare sesso naturalmente, cioè senza fare ricorso alle tecnologie medico-chirurgiche (affermazioni talmente deliranti per le quali non vale la pena rispondere).

Uno dei motivi per cui il ddl Zan è stato ostaggio delle destre fasciste e clericali fu la proposta di istituire una Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia. Questa iniziativa, espressa dall’articolo 7 del disegno, avrebbe svolto una funzione formativa, in quanto, durante la giornata scolastica del 17 maggio, si sarebbero potute promuovere delle attività pedagogiche volte a educare le giovani generazioni all’inclusività e al rispetto dell’altro (propositi certamente più razionali dell’internamento dei violenti in istituzioni autoritarie e machiste).

Effettivamente, sono ormai parecchi i Paesi in cui i programmi scolastici prevedono momenti dedicati al contrasto dei pregiudizi, delle discriminazioni e delle violenze motivate dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale. Tuttavia, la proposta di una pedagogia più inclusiva ha sollevato in primo luogo lo sdegno e la collera del Vaticano, il quale si è mobilitato subito per ricordare allo Stato italiano i suoi doveri. Pur di fermare la legge, la Chiesa è arrivata a sostenere che lo Zan avrebbe minacciato la libertà di pensiero dei cattolici e, quindi, violato il Concordato. La destra parlamentare non se lo è fatta ripetere due volte e ha sfruttato il piagnisteo ecclesiastico per gettare ulteriore fango sull’iniziativa legislativa e sulla comunità tutta.

È doveroso ricordare che quando si parla di omolesbobitransfobia non bisogna pensare necessariamente ad una semplice violenza fisica o verbale. L’omolesbobitransfobico di oggi è quello che ci invita a fare “le nostre cose” a casa nostra, purché la nostra libertà affettiva e sessuale non si mostri agli occhi del pubblico, e in particolar modo dei più giovani. Quando il macho aggredisce una coppia omosessuale che si espone in pubblico, non sta colpendo due singole persone ma sta attaccando una intera comunità che deve rimanere invisibile affinché non vengano minate le basi culturali etero-cis-patriarcali dello Stato. Di conseguenza, lottare per una istruzione inclusiva e aperta alla messa in discussione della Norma affettiva e sessuale non significa soltanto rendere più vivibile l’esistenza di una minoranza della popolazione, ma attentare alle basi di un intero sistema fatto di oppressx e di oppressori.

Spero che quanto sottolineato risulti sufficiente a chi legge e comprende che la lotta queer e transfemminista non è né un capriccio di pochx, né una battaglia isolata dalle altre. La distruzione dell’etero-cis-patriarcato implica la messa in atto di una resistenza pluridirezionale, capace di rinnovare lotte che hanno visto in prima linea i movimenti sociali extraparlamentari (anticlericalismo, abolizionismo carcerario, istruzione…).

In una situazione storica nella quale lo Stato, i partiti e i partitini, genuflessi alla Chiesa e al Capitale, non sono in grado di riconoscere alla comunità LGBTQIA i diritti più basilari, il movimento anarchico – in primo luogo la sua componente organizzata – potrebbe arrivare là dove non arriva l’autorità. Le persone oppresse e l’anarchismo organizzato, insieme, possono costruire reti di alleanze e spazi che siano sicuri per chi li attraversa e pericolosi per chi si sente libero di toccare i corpi delle donne e delle persone LGBTQIA. L’occasione giusta per agire la abbiamo qui e ora.

Cristian Ruggieri

Posted in Contro l'eteropatriarcato, da Umanità Nova.


Mercanti d’armi e missioni militari: colonialismo e buoni affari

 

Le armi italiane, in prima fila il colosso pubblico Leonardo, sono presenti su tutti i teatri di guerra. Guerre che paiono lontane sono invece vicinissime: le armi che uccidono civili in ogni dove, sono prodotte non lontano dai giardini dove giocano i nostri bambini.
Torino è uno dei centri dell’industria bellica.
Dal 30 novembre al 2 dicembre 2021 si terrà a Torino “Aerospace & defence meetings”, mostra-mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra.
La convention, giunta alla sua ottava edizione, sarà ospitata all’Oval Lingotto, centro congressi facente parte delle strutture nate sulle ceneri del complesso industriale dell’ex Fiat.
La mostra-mercato è riservata agli addetti ai lavori: fabbriche del settore, governi e organizzazioni internazionali, esponenti delle forze armate degli Stati e compagnie di contractor. Alla scorsa edizione parteciparono 600 aziende, 1300 tra acquirenti e venditori ed i rappresentanti di 30 governi. Il vero fulcro della convention sono gli incontri bilaterali per stringere accordi di cooperazione e vendita: nel 2019 ce ne furono oltre 7.500.
Tra gli sponsor ospiti del meeting spiccano la Regione Piemonte e la Camera di Commercio subalpina.
Settima nel mondo e quarta in Europa, con un giro d’affari di oltre 16.4 miliardi di euro, 47.274 addetti l’industria aerospaziale è un enorme business di morte.
La gran parte delle aziende italiane dell’aerospazio si trova in Piemonte, dove il giro d’affari annuale è di 3,9 miliardi euro. I settori produttivi sono strettamente connessi con le università, in primis il Politecnico, e altri settori della formazione.
In Piemonte, ci sono ben cinque attori internazionali di primo piano: Leonardo, Avio Aero, Collins Aerospace, Thales Alenia Space, ALTEC. Gran parte delle industrie mondiali di prima grandezza partecipano alla biennele dell’aerospazio.
A Torino nei prossimi mesi sorgerà la città dell’aerospazio, un nuovo polo tecnologico dedicato all’industria di guerra. Il progetto coinvolge Regione Piemonte, Comune, Politecnico, Università, Camera di Commercio e Unione Industriale di Torino, Api, Cim 4.0, il Distretto aerospaziale piemontese e Tne.
Inutile dire che chi vive in Piemonte probabilmente ha altre necessità, come casa, reddito, salute, istruzione, trasporti di prossimità.
A fine novembre all’Oval saranno allestiti alveari di uffici, dove verranno sottoscritti accordi commerciali per le armi che distruggono intere città, massacrano civili, avvelenano terre e fiumi. L’industria aerospaziale produce cacciabombardieri, missili balistici, sistemi di controllo satellitare, elicotteri da combattimento, droni armati per azioni a distanza.
L’Aerospace and defence meeting è un evento semi clandestino, chiuso, dove si giocano partite mortali per milioni di persone in ogni dove.
L’industria bellica è un business che non va mai in crisi. L’Italia fa affari con chiunque.
La chiusura e riconversione dell’industria bellica è urgente e necessaria.
Le truppe del Belpaese fanno la guerra in Niger, Libia, Golfo di Guinea, stretto di Ormuz, Iraq, nel Mediterraneo ed in tanti altri luoghi del pianeta.
La scorsa estate il parlamento ha approvato il rifinanziamento delle varie avventure neo-coloniali delle forze armate italiane. In Africa sono concentrate 18 delle 40 missioni tricolori.
Le missioni militari all’estero costano un miliardo e 200 milioni di euro: 9.449 i militari impiegati: un secco aumento rispetto alle cifre già da record del 2020.
Le spese militari quest’anno hanno toccato i 25 miliardi. Vent’anni di guerra e occupazione militare dell’Afganistan sono costati alla sola Italia 8,7 miliardi di euro.
Va in soffitta la retorica delle missioni umanitarie ed entra in ballo la “difesa degli interessi italiani”.
Le bandiere tricolori sventolano accanto a quelle gialle con il cane a sei zampe dell’ENI.
La decisione di costruire una base militare italiana in Niger mira a rendere stabile la presenza tricolore nell’area, facendone un avamposto per la difesa degli interessi dell’ENI in Africa.
La diplomazia in armi del governo per garantire i profitti della multinazionale petrolifera va dalla Libia al Sahel al Golfo di Guinea. Queste aree hanno un’importanza strategica per gli interessi dell’ENI, perché vi si trovano i maggiori produttori africani di gas e petrolio. L’obiettivo è la protezione delle piattaforme offshore e degli impianti di estrazione.
L’ENI rappresenta oggi la punta di diamante del colonialismo italiano in Africa.
Alla guerra per il controllo delle risorse energetiche si accompagna l’offensiva contro le persone in viaggio, per ricacciare i migranti nelle galere libiche, dove torture, stupri e omicidi sono fatti normali. Come un serpente che si morde la coda le migrazioni verso i paesi ricchi sono frutto della ferocia predatoria delle politiche neocoloniali. Sotto all’ampio cappello della “sicurezza” e della “lotta al terrorismo” si articola una narrazione che mescola interessi economici con la retorica della missione di protezione delle popolazioni locali. Popolazioni che sono quotidianamente sfruttate, depredate ed oppresse da governi complici delle multinazionali europee, asiatiche e statunitensi.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce della stessa medaglia.
Nel nostro paese militari sono stati promossi al ruolo di agenti di polizia giudiziaria e, da oltre dieci anni , con l’operazione “strade sicure”, sono nei CPR, dove vengono rinchiusi i corpi in eccedenza da espellere, nei cantieri militarizzati e per le strade delle nostre periferie, dove la guerra ai poveri si attua con l’occupazione e il controllo etnicamente mirato del territorio, per reprimere sul nascere ogni possibile insorgenza sociale.
Nel nostro paese ci sono porti e aeroporti militari, poligoni di tiro, aree di esercitazione, spazi dove vengono testati ordigni, cacciabombardieri, droni, navi e sottomarini. Luoghi di morte anche per chi ci abita vicino, perché carburanti, proiettili all’uranio impoverito, dispositivi per la guerra chimica inquinano in modo irreversibile terra e mare.
Le prove generali dei conflitti di questi anni vengono fatte nelle basi militari sparse per l’Italia.
Provate ad immaginare quanto migliori sarebbero le nostre vite se i miliardi impiegati per ricacciare uomini, donne e bambini nei lager libici, per garantire gli interessi dell’ENI in Africa, per investire in armamenti fossero usati per scuola, sanità, trasporti.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Bloccare le missioni all’estero, boicottare l’ENI, cacciare i militari dalle nostre città, bloccare la produzione e il trasporto di armi, contrastare la mostra mercato dell’industria aerospaziale di guerra sono concreti orizzonti di lotta.

Assemblea antimilitarista

 

Posted in Antimilitarismo, Comunicati.


Dibattito anarcofemminista

Posted in Ateneo Libertario, Contro l'eteropatriarcato.