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Alleanza anarchica e queer

Come ogni proposta che sembri mettere in discussione la ricetta “Dio, patria e famiglia”, il ddl Zan è stato oggetto di un iter lunghissimo, principalmente a causa dell’ostruzionismo delle destre e delle pressioni esercitate dal mondo ecclesiastico: viene presentato il 2 maggio 2018, approvato alla Camera dei deputati il 4 novembre 2020 e bocciato al Senato il 27 ottobre 2021. Quando una certa fetta della politica ci racconta che esistono delle priorità rispetto alle rivendicazioni affettive e sessuali, ricordiamoci di queste tempistiche. Se le priorità del “popolo italiano” sono altre, allora chiediamoci perché i nostri cari delegati spendono anima e corpo per affossare ogni disegno di legge che offre il minimo sindacale alle persone LGBTQIA, investendo tempo ed energie che potrebbero usare per occuparsi di quelli che, a loro dire, sono i problemi di serie A.

Il percorso di cui è stato vittima il ddl Zan, difatti, ricorda ciò che accadde anni fa con il ddl Cirinnà. Il testo originario del disegno di legge, presentato il 19 dicembre 2013, prevedeva la regolamentazione delle unioni civili per coppie non eterosessuali e la possibilità di adottare il figlio del partner. Dopo 3 anni di osteggiamenti, l’11 maggio 2016, il disegno di legge venne approvato ma del testo originario rimase ben poco: venne dato il sì all’unione civile fra persone omosessuali ma furono eliminate la stepchild adoption e numerosi riferimenti al matrimonio, come l’obbligo di fedeltà. È doveroso sottolineare che, rimuovendo l’obbligo di fedeltà, i catto-fascisti non hanno certo voluto fare un favore alle coppie non eterosessuali. Si trattò di una mossa subdola con la quale i nostri preti ararono il terreno in vista di un futuro ancora indefinito: se mai un giorno dovesse comparire un disegno di legge che offre alle coppie non etero-normate italiane la possibilità di costruire una famiglia diversa da quella tradizionale, la destra cristiana potrà usare l’assenza dell’obbligo di fedeltà come cavillo utile a sostenere che la coppia non eterosessuale non è retta dai vincoli necessari per costituire una “vera famiglia” come quella fondata sull’amore eterosessuale.

Tornando ai fatti più recenti, in questi ultimi due anni abbiamo visto l’associazionismo LGBTQIA ‒ tendenzialmente quello liberale e marxista eterodosso ma non solo ‒ mobilitarsi con una certa tenacia in difesa dello Zan, o meglio, per moltopiùdiZan (questo era lo slogan ricorrente). D’altra parte, abbiamo visto anche la crescita di quella fetta di movimento che, per distinguersi dall’associazionismo gay mainstream, si definisce provocatoriamente LGBTQIACAB. Vi sono state piazze in cui, da Milano a Torino a Firenze, attivisti e attiviste queer si sono mobilitate contro l’etero-cis-patriarcato, senza però menzionare la legge firmata PD. Senza pretendere di rappresentare queste realtà politiche e le loro istanze, vorrei provare a intuire alcune delle criticità che hanno portato i gruppi queer più radicali a non inserirsi nell’onda del moltopiùdiZan.

Il ddl Zan esprimeva “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.” Per perseguire questi fini, lo Zan avrebbe innanzitutto esteso l’applicazione della legge Mancino, che punisce con la carcerazione i crimini d’odio fondati sul razzismo etnico, nazionale o religioso. Il Partito Democratico avrebbe quindi voluto integrare la legge del 1993 estendendo la reclusione a coloro che discriminano sulla base del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità.

Ora, io trovo che pensare di rispondere alla violenza omolesbobitransfobica affidandosi alla repressione punitiva di matrice statale presenti principalmente due criticità. Premetto che non condivido affatto l’idea di chi ha visto questo disegno di legge come un tentativo di reprimere la libertà di parola in nome del politicamente corretto. Libertà è una parola importante che non si può ridurre alla possibilità di urlare “ricchione”, “negro”, eccetera alle persone. Persino alcuni pseudo-compagni libertari eterosessuali (uso il maschile plurale non a caso) si sono sentiti minacciati dallo Zan, credendo che da un giorno all’altro lo Stato avrebbe potuto internare le persone per educarle al “nuovo pensiero egemonico della sinistra LGBT”.

Per rispondere agli allarmi deliranti di questi compagni vorrei ricordare che viviamo in una società dove l’unica famiglia possibile è quella eterosessuale, dove la tv di Stato censura le scene omoerotiche nei film trasmessi in prima serata, dove due persone omosessuali non sono ancora libere di camminare mano nella mano per strada senza subire aggressioni. Dunque, di quale “nuovo pensiero egemonico” stiamo parlando? L’unico pensiero egemonico è quello eterosessuale che regge lo Stato-Nazione. Se siamo anarchici militanti e vogliamo decostruire una proposta di legge fasulla, facciamolo, ma usando le giuste argomentazioni, non discorsi degni del Congresso delle famiglie di Verona.

Se la sinistra parlamentare vuole combattere la violenza etero-cis-patriarcale con la giustizia penale, bisogna innanzitutto ricordare che la prigione è una istituzione totale che riproduce e amplifica lo stesso machismo che, nella vita di tutti i giorni, opprime le persone non eterosessuali e non cisgender. Il carcere è uno spazio chiuso all’interno del quale vige una forte disparità di potere tra la popolazione carceraria e le guardie che la sorvegliano e disciplinano. In quello spazio chiuso e alienante, i detenuti imparano presto ad assimilare le logiche autoritarie che regolano la relazione verticale fra guardie e reclusi e a riprodurle orizzontalmente sui propri compagni. Lo sviluppo di una cultura penitenziaria basata sulla forza e sulla genuflessione verso chi ha più potere danneggia in particolar modo le persone LGBTQIA detenute, le quali sono spesso le prime vittime di questa violenza machista.

Nelle carceri maschili, il macho tende a sessualizzare, nonché ad oggettificare, i compagni di prigione che ritiene più femminili e, quindi, a suo parere più deboli. Questi schemi mentali sessisti e omofobici si ripercuotono sia sui detenuti omosessuali sia sui detenuti eterosessuali non conformi agli standard del maschio etero-cis normato, i quali diventano facili vittime di violenza sessuale da parte del singolo o del branco.

Per sottrarre i detenuti LGBTQIA alle aggressioni ricorrenti, alcune carceri ospitano delle sezioni destinate nello specifico a detenuti descritti come più vulnerabili. Tralasciando il fatto che non credo possano esistere spazi sicuri e civili all’interno di una istituzione totale, è doveroso ricordare che in tali sezioni speciali le condizioni di vita sono ancora più deprimenti. Difatti, essendo destinate ad un numero meno significativo di persone, queste aree ospitano meno servizi e minori opportunità creative e ricreative utili alla persona reclusa per non sfociare nella depressione, nella dissociazione e in altre forme di sofferenza psichica patologica.

Di là delle sezioni protette, se il carcere è, sulla base di quanto abbiamo visto, una istituzione machista, sessista ed etero-cis-patriarcale, trovo davvero irrazionale pensare che un detenuto colpevole di omolesbobitransfobia possa uscire dalla prigione come una persona aperta al prossimo e a riconoscere dignità a chi non è etero-cis normato.

Un altro aspetto critico della protezione statale riguarda la vulnerabilizzazione delle minoranze oppresse. In quanto persone anormali – nel senso di non conformi alla Norma ‒ dobbiamo riconoscere la nostra indubbia vulnerabilità, cioè la nostra maggiore esposizione alla violenza, sia istituzionale sia orizzontale. Questo bisogna ammetterlo. Tuttavia, tralasciando l’assurdità del chiedere protezione alle stesse autorità e istituzioni che per secoli ci hanno invisibilizzato, torturato e ucciso, temo che farci cullare dalle braccia di padre Stato possa esporci ad una rischiosa vulnerabilizzazione. (intesa come vulnerabilità indotta).

Come ricorda Judith Butler in L’Alleanza dei Corpiimperniare le rivendicazioni sul concetto di vulnerabilità può essere pericoloso dal punto di vista politico, in quanto apre ad una possibile politica paternalistica volta a naturalizzare le relazioni di disuguaglianza. Voglio dire che la vulnerabilità è un concetto strategico che può essere usato per attaccare una comunità (come fa il macho nelle carceri) oppure per proteggerla (come pensava di fare lo Zan).

Mi piacerebbe pensare ad una comunità LGBTQIA che riconosce la propria vulnerabilità (sistemica e, quindi, non naturale) per aprirsi a relazioni politiche interpersonali che si traducano in reti di tutela reciproca e di solidarietà mutualistica dal basso, senza chiedere protezione allo Stato. Sicuramente possiamo imparare molto dalle compagne anarchiche e femministe rivoluzionarie che, nei contesti più difficili dell’America latina, stanno tentando di costruire qualcosa di simile a ciò che io immagino.

Mobilitarsi in massa per supplicare la protezione dello Stato significa offrire pane per i denti di chi continua a descriverci come soggettività fragili e indifese per essenza. Il Senato stesso, in occasione del dibattito istituzionale sul ddl Zan, è stato il luogo in cui si è potuto dire di tutto sull’esistenza delle persone LGBTQIA: si va da chi ha associato l’omosessualità alla pedofilia, a chi ha sostenuto che se la transizione di genere fosse normale, allora Dio ci avrebbe permesso di cambiare sesso naturalmente, cioè senza fare ricorso alle tecnologie medico-chirurgiche (affermazioni talmente deliranti per le quali non vale la pena rispondere).

Uno dei motivi per cui il ddl Zan è stato ostaggio delle destre fasciste e clericali fu la proposta di istituire una Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia. Questa iniziativa, espressa dall’articolo 7 del disegno, avrebbe svolto una funzione formativa, in quanto, durante la giornata scolastica del 17 maggio, si sarebbero potute promuovere delle attività pedagogiche volte a educare le giovani generazioni all’inclusività e al rispetto dell’altro (propositi certamente più razionali dell’internamento dei violenti in istituzioni autoritarie e machiste).

Effettivamente, sono ormai parecchi i Paesi in cui i programmi scolastici prevedono momenti dedicati al contrasto dei pregiudizi, delle discriminazioni e delle violenze motivate dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale. Tuttavia, la proposta di una pedagogia più inclusiva ha sollevato in primo luogo lo sdegno e la collera del Vaticano, il quale si è mobilitato subito per ricordare allo Stato italiano i suoi doveri. Pur di fermare la legge, la Chiesa è arrivata a sostenere che lo Zan avrebbe minacciato la libertà di pensiero dei cattolici e, quindi, violato il Concordato. La destra parlamentare non se lo è fatta ripetere due volte e ha sfruttato il piagnisteo ecclesiastico per gettare ulteriore fango sull’iniziativa legislativa e sulla comunità tutta.

È doveroso ricordare che quando si parla di omolesbobitransfobia non bisogna pensare necessariamente ad una semplice violenza fisica o verbale. L’omolesbobitransfobico di oggi è quello che ci invita a fare “le nostre cose” a casa nostra, purché la nostra libertà affettiva e sessuale non si mostri agli occhi del pubblico, e in particolar modo dei più giovani. Quando il macho aggredisce una coppia omosessuale che si espone in pubblico, non sta colpendo due singole persone ma sta attaccando una intera comunità che deve rimanere invisibile affinché non vengano minate le basi culturali etero-cis-patriarcali dello Stato. Di conseguenza, lottare per una istruzione inclusiva e aperta alla messa in discussione della Norma affettiva e sessuale non significa soltanto rendere più vivibile l’esistenza di una minoranza della popolazione, ma attentare alle basi di un intero sistema fatto di oppressx e di oppressori.

Spero che quanto sottolineato risulti sufficiente a chi legge e comprende che la lotta queer e transfemminista non è né un capriccio di pochx, né una battaglia isolata dalle altre. La distruzione dell’etero-cis-patriarcato implica la messa in atto di una resistenza pluridirezionale, capace di rinnovare lotte che hanno visto in prima linea i movimenti sociali extraparlamentari (anticlericalismo, abolizionismo carcerario, istruzione…).

In una situazione storica nella quale lo Stato, i partiti e i partitini, genuflessi alla Chiesa e al Capitale, non sono in grado di riconoscere alla comunità LGBTQIA i diritti più basilari, il movimento anarchico – in primo luogo la sua componente organizzata – potrebbe arrivare là dove non arriva l’autorità. Le persone oppresse e l’anarchismo organizzato, insieme, possono costruire reti di alleanze e spazi che siano sicuri per chi li attraversa e pericolosi per chi si sente libero di toccare i corpi delle donne e delle persone LGBTQIA. L’occasione giusta per agire la abbiamo qui e ora.

Cristian Ruggieri

Posted in Contro l'eteropatriarcato, da Umanità Nova.


Mercanti d’armi e missioni militari: colonialismo e buoni affari

 

Le armi italiane, in prima fila il colosso pubblico Leonardo, sono presenti su tutti i teatri di guerra. Guerre che paiono lontane sono invece vicinissime: le armi che uccidono civili in ogni dove, sono prodotte non lontano dai giardini dove giocano i nostri bambini.
Torino è uno dei centri dell’industria bellica.
Dal 30 novembre al 2 dicembre 2021 si terrà a Torino “Aerospace & defence meetings”, mostra-mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra.
La convention, giunta alla sua ottava edizione, sarà ospitata all’Oval Lingotto, centro congressi facente parte delle strutture nate sulle ceneri del complesso industriale dell’ex Fiat.
La mostra-mercato è riservata agli addetti ai lavori: fabbriche del settore, governi e organizzazioni internazionali, esponenti delle forze armate degli Stati e compagnie di contractor. Alla scorsa edizione parteciparono 600 aziende, 1300 tra acquirenti e venditori ed i rappresentanti di 30 governi. Il vero fulcro della convention sono gli incontri bilaterali per stringere accordi di cooperazione e vendita: nel 2019 ce ne furono oltre 7.500.
Tra gli sponsor ospiti del meeting spiccano la Regione Piemonte e la Camera di Commercio subalpina.
Settima nel mondo e quarta in Europa, con un giro d’affari di oltre 16.4 miliardi di euro, 47.274 addetti l’industria aerospaziale è un enorme business di morte.
La gran parte delle aziende italiane dell’aerospazio si trova in Piemonte, dove il giro d’affari annuale è di 3,9 miliardi euro. I settori produttivi sono strettamente connessi con le università, in primis il Politecnico, e altri settori della formazione.
In Piemonte, ci sono ben cinque attori internazionali di primo piano: Leonardo, Avio Aero, Collins Aerospace, Thales Alenia Space, ALTEC. Gran parte delle industrie mondiali di prima grandezza partecipano alla biennele dell’aerospazio.
A Torino nei prossimi mesi sorgerà la città dell’aerospazio, un nuovo polo tecnologico dedicato all’industria di guerra. Il progetto coinvolge Regione Piemonte, Comune, Politecnico, Università, Camera di Commercio e Unione Industriale di Torino, Api, Cim 4.0, il Distretto aerospaziale piemontese e Tne.
Inutile dire che chi vive in Piemonte probabilmente ha altre necessità, come casa, reddito, salute, istruzione, trasporti di prossimità.
A fine novembre all’Oval saranno allestiti alveari di uffici, dove verranno sottoscritti accordi commerciali per le armi che distruggono intere città, massacrano civili, avvelenano terre e fiumi. L’industria aerospaziale produce cacciabombardieri, missili balistici, sistemi di controllo satellitare, elicotteri da combattimento, droni armati per azioni a distanza.
L’Aerospace and defence meeting è un evento semi clandestino, chiuso, dove si giocano partite mortali per milioni di persone in ogni dove.
L’industria bellica è un business che non va mai in crisi. L’Italia fa affari con chiunque.
La chiusura e riconversione dell’industria bellica è urgente e necessaria.
Le truppe del Belpaese fanno la guerra in Niger, Libia, Golfo di Guinea, stretto di Ormuz, Iraq, nel Mediterraneo ed in tanti altri luoghi del pianeta.
La scorsa estate il parlamento ha approvato il rifinanziamento delle varie avventure neo-coloniali delle forze armate italiane. In Africa sono concentrate 18 delle 40 missioni tricolori.
Le missioni militari all’estero costano un miliardo e 200 milioni di euro: 9.449 i militari impiegati: un secco aumento rispetto alle cifre già da record del 2020.
Le spese militari quest’anno hanno toccato i 25 miliardi. Vent’anni di guerra e occupazione militare dell’Afganistan sono costati alla sola Italia 8,7 miliardi di euro.
Va in soffitta la retorica delle missioni umanitarie ed entra in ballo la “difesa degli interessi italiani”.
Le bandiere tricolori sventolano accanto a quelle gialle con il cane a sei zampe dell’ENI.
La decisione di costruire una base militare italiana in Niger mira a rendere stabile la presenza tricolore nell’area, facendone un avamposto per la difesa degli interessi dell’ENI in Africa.
La diplomazia in armi del governo per garantire i profitti della multinazionale petrolifera va dalla Libia al Sahel al Golfo di Guinea. Queste aree hanno un’importanza strategica per gli interessi dell’ENI, perché vi si trovano i maggiori produttori africani di gas e petrolio. L’obiettivo è la protezione delle piattaforme offshore e degli impianti di estrazione.
L’ENI rappresenta oggi la punta di diamante del colonialismo italiano in Africa.
Alla guerra per il controllo delle risorse energetiche si accompagna l’offensiva contro le persone in viaggio, per ricacciare i migranti nelle galere libiche, dove torture, stupri e omicidi sono fatti normali. Come un serpente che si morde la coda le migrazioni verso i paesi ricchi sono frutto della ferocia predatoria delle politiche neocoloniali. Sotto all’ampio cappello della “sicurezza” e della “lotta al terrorismo” si articola una narrazione che mescola interessi economici con la retorica della missione di protezione delle popolazioni locali. Popolazioni che sono quotidianamente sfruttate, depredate ed oppresse da governi complici delle multinazionali europee, asiatiche e statunitensi.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce della stessa medaglia.
Nel nostro paese militari sono stati promossi al ruolo di agenti di polizia giudiziaria e, da oltre dieci anni , con l’operazione “strade sicure”, sono nei CPR, dove vengono rinchiusi i corpi in eccedenza da espellere, nei cantieri militarizzati e per le strade delle nostre periferie, dove la guerra ai poveri si attua con l’occupazione e il controllo etnicamente mirato del territorio, per reprimere sul nascere ogni possibile insorgenza sociale.
Nel nostro paese ci sono porti e aeroporti militari, poligoni di tiro, aree di esercitazione, spazi dove vengono testati ordigni, cacciabombardieri, droni, navi e sottomarini. Luoghi di morte anche per chi ci abita vicino, perché carburanti, proiettili all’uranio impoverito, dispositivi per la guerra chimica inquinano in modo irreversibile terra e mare.
Le prove generali dei conflitti di questi anni vengono fatte nelle basi militari sparse per l’Italia.
Provate ad immaginare quanto migliori sarebbero le nostre vite se i miliardi impiegati per ricacciare uomini, donne e bambini nei lager libici, per garantire gli interessi dell’ENI in Africa, per investire in armamenti fossero usati per scuola, sanità, trasporti.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Bloccare le missioni all’estero, boicottare l’ENI, cacciare i militari dalle nostre città, bloccare la produzione e il trasporto di armi, contrastare la mostra mercato dell’industria aerospaziale di guerra sono concreti orizzonti di lotta.

Assemblea antimilitarista

 

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Dibattito anarcofemminista

Posted in Ateneo Libertario, Contro l'eteropatriarcato.


Spese militari contro spese sociali. I numeri dicono tanto

Nel panorama delle valutazioni ed iniziative, ci pare opportuno focalizzare un aspetto, non sempre in evidenza, cioè mettere in relazione il costo della spesa militare con quella sociale. Riteniamo che una campagna antimilitarista non possa e non debba prescindere dal sottolineare di come le risorse pubbliche, negli ultimi anni, abbiamo scavato un solco sempre più profondo tra l’aumento della spesa militare e la progressiva contrazione della qualità della vita, dalla salvaguardia della salute, alla pubblica all’istruzione, al mondo del lavoro: focalizzare l’attenzione su questi temi ci pare uno strumento efficace per contribuire a formare una coscienza antimilitarista.

Secondo le stime del SIPRI di Stoccolma (Istituto di studi sulla pace tra i più importanti al mondo) la spesa militare nazionale nel 2021 sarà pari a 24,9 miliardi di Euro con una crescita del 8,1% sul 2020 e del 15,7% sul 2019. L’Italia si riconferma nei primi posti della classifica europea delle spese militari ed occupa l’undicesima posizione mondiale.

L’attuale esecutivo ha mostrato chiaramente le sue intenzioni nel proseguire gli investimenti nel settore militare. In attesa dei fondi del Recovery Fund i ministeri della Difesa e dello Sviluppo Economico hanno presentato, nello scorso settembre, diversi progetti per un ammontare complessivo di 30 miliardi di Euro, da destinarsi soprattutto ai comparti dello spazio, dell’intelligenza artificiale e della cibernetica. Lo strumento finanziario per l’impiego delle risorse sono i fondi pluriennali per l’investimento e lo sviluppo infrastrutturale dell’Italia: strumenti di finanziamento di medio periodo introdotti a partire dal 2016 (e quindi voluti da diversi governi) e che si svilupperanno sino al 2034.

Dell’ammontare complessivo di questi fondi, 144 miliardi, circa 36,7 miliardi saranno utilizzati per l’acquisizione di sistemi d’arma. Il nucleo dei nuovi programmi risiede nell’applicazione militare del 5G e nel caccia di sesta generazione, il Tempest. Se andiamo ad esaminare la qualità degli armamenti è indicativa di come si sta passando da un impiego delle forze amate a carattere “difensivo” a quello “offensivo”. Nel documento programmatico pluriennale 2021-2023 vi è un investimento di 128 milioni di Euro per la dotazione di droni Reaper, il che significa che il sistema d’arma fa un passaggio fondamentale, da mezzo di sorveglianza e monitoraggio del territorio a strumento tipicamente di offesa. La marina militare si sta adeguando anch’essa alla nuova linea strategica avendo in progetto l’acquisto di missili Cruise per sottomarini e le fregate Fremm.

A fronte di una linea retta tendente al rialzo per le spese militari il panorama complessivo del “sociale” segna invece un andamento contrapposto. Cominciando dalla sanità, dove negli ultimi anni si è assistito ad un ridimensionato sia nelle strutture sia nel personale. L’Italia è sottodimensionata rispetto agli altri paesi europei: i posti letto sono da anni in costante calo ed il divario rispetto alla media europea è significativo. La disponibilità dei posti letto, circa 192.000, è pari 31,8 ogni 10mila abitanti, contro il dato europeo di 50. Il ritardo, rispetto ai paesi UE, è palese nel personale sanitario diminuito del 4,9% negli ultimi otto anni. Il mancato turn over ha inciso e di molto nell’invecchiamento degli addetti sanitari. Infatti il 60,4% dei medici ha più di 55 anni mentre quattro su dieci superano i 60 anni; tra gli infermieri uno su quattro è sopra i 55 e l’età media è pari a 48anni. Significativa e penalizzante è la mancanza di personale infermieristico dove l’Italia con 58 addetti ogni 10mila abitanti (circa la metà di quelli di Germania e Francia) occupa il 16° posto nella graduatoria europea. La contrazione degli investimenti nel settore sanitario, da 2,4 miliardi del 2013 ai 1,4 miliardi del 2018, hanno causato non solo minori servizi alle persone ma anche un impoverimento della strumentazione ed una obsolescenza delle apparecchiature mediche.

Anche per l’istruzione i dati evidenziano un deficit nazionale rispetto al resto d’Europa. Nel 2018 (ultimo dato ISTAT disponibile) la spesa dell’istruzione sul PIL è del 3,3%, collocando l’Italia al terzultimo posto nella classifica europea sopravanzando solo Grecia ed Irlanda. Il dato nazionale riferito alla quota dei giovani che abbandonano gli studi precocemente è del 13% (543mila in termini assoluti), livello decisamente più elevato rispetto alla media UE (9,9%). In Italia solo il 20,1% possiede una laurea ed il 62,9% un diploma, contro i rispettivi valori UE del 32,8 e 79% europeo.

Le spese sociali evidenziano un generale calo e le prestazioni sociali in rapporto al PIL sono in discesa. Nel 2013 la loro percentuale era pari al 19,6 mentre nel 2018 (ultimo dato disponibile) scende di quasi un punto. La spesa sociale destinata a minori e famiglie con figli è inferiore alla media europea. Il valore procapite del 2018 è di 311 euro contro i 616 euro in media del resto dei paesi UE. Anche i dati riferiti alla spese sociale per i disabili sono sotto la soglia UE: l’Italia destina procapite 409 euro rispetto ai 528 euro dell’UE.

Il panorama del mondo del lavoro è alquanto deprimente. Il tasso di occupazione della popolazione tra i 15 ed i 64 anni è del 59% contro il 69,2% europeo, mentre il tasso di disoccupazione giovanile nella fascia d’età tra i 15-24 anni è decisamente più alto, 29,4%, rispetto all’’indice UE che si attesta sul 16,8%. La disoccupazione tra i giovani laureati (17,9%) e diplomati (27,7%) è il doppio dei rispettivi valori medi europei. Il dato dei giovani, nella fascia tra i 15-29 anni, che risultano non occupati, non studenti, non in formazione è pari al 23,3%; dato quasi doppio rispetto alla media d’Europa.

Le condizioni salariali registrano record negativi. Aumentano i lavoratori con bassa paga oraria inferiore a 2/3 di quella media pari a 12,8 Euro. In italia i salari rispetto al 1990, sono diminuiti del 2,9%. Nel 1990 l’Italia occupava il settimo posto nella classifica delle retribuzioni mentre ora si colloca al tredicesimo. Rimane alta la fascia del precariato, infatti la percentuale dei contratti a tempo determinato trasformati in contratti a tempo indeterminato è quasi la metà (14,4%) rispetto alla media UE (25,6%). L’insieme di questi indicatori non può che essere sintetizzato in un dato come quello della povertà. In base alle stime ISTAT nel 2020 le famiglie in povertà assoluta (per povertà assoluta si intende chi è sotto la soglia di 761 euro mensili per capacità di spesa) sono oltre 2 milioni ed i minori assommano a 1.337.000. Le famiglie totalmente indigenti sono 335mila in più (+7,7%) rispetto al 2019. Il numero complessivo degli individui che fanno parte di questi nuclei famigliari sono circa 5,6 milioni, il 9,4% della popolazione italiana. Le famiglie straniere con minori che vivono in condizione di indigenza risultano essere 4 su 10 ed i senza fissa dimora sono compresi tra le 49mila e le 52mila unità. Anche i dati sui minori a rischio povertà (24,55) pongono l’Italia sotto la media UE (18,5%).

In conclusione, i numeri sopra esposti evidenziano due andamenti contrapposti: l’aumento delle risorse per la guerra e il calo di quelle destinate alla garanzia del sociale. Se prendiamo come riferimento quanto viene speso al giorno per il sistema militare, 70 milioni di euro, con tale somma potremmo garantire 100.000 ricoveri in strutture ospedaliere, 46.666 terapie intensive, 45.190 interventi sulla retina,1.118 trapianti di cuore, 47.000 radioterapie, 30.880 cure per il disturbo della personalità. Un solo giorno di spesa militare corrispondono al costo di 7 nuovi edifici scolastici di scuola media inferiore, alla spesa media annuale per l’istruzione di 10.000 studenti della scuola pubblica, di 6.363 studenti liceali, allo stipendio annuale di 2.500 insegnanti ed al costo complessivo di 482 studenti che completano, dalla materna alla laurea, l’intero ciclo scolastico. I numeri talvolta dicono molto di più delle parole: compito nostro dare voce al numero per costruire una coscienza antimilitarista.

Daniele Ratti

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


4 Novembre antimilitarista

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Due righe su omobitransfobia e istituzioni

Oggi il Senato, grazie alla ‘tagliola’ chiesta da Lega e Fratelli d’Italia, ha bocciato il ddl Zan, disegno di legge pensato per la prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità.
Ora, in quanto donne e/o persone non eterosessuali inserite nel movimento anarchico, non ci siamo mai mobilitat* per chiedere protezione alle stesse autorità che per due millenni ci hanno torturato, ucciso e invisibilizzato. Non scendiamo in piazza per mangiare le briciole che ci lascia il governo dell’etero-cis-patriarcato. E soprattutto, rivendicando un approccio intersezionale, non troviamo protezione in una legge che di fatto legittima la prigione, l’istituzione machista, sessista e omobitransfobica per eccellenza.
Tuttavia, dobbiamo prendere atto che non sono certo riflessioni libertarie e antiautoritarie come queste ad aver portato alla distruzione di un ddl che è stato descritto dal Vaticano come “la legge del diavolo”.
La bocciatura del ddl Zan è celebrata come una vittoria da parte di quella destra fasciocattolica che vede minacciate le fondamenta etero-cis-patriarcali del suo Stato-Nazione e che brinda sulla pelle dei nostri corpi pestati a sangue nelle strade.
Per i partiti e partitini della cosiddetta sinistra di governo, invece, è l’evidente dimostrazione di un’incapacità di prendere una posizione netta in merito al riconoscimento dei diritti più basilari.
Sia chiaro, nessun vittimismo da parte nostra. O meglio, riconosciamo di essere espost* ad una violenza sistemica, ma rigettiamo l’immaginario machista che ci descrive come persone deboli e incapaci di difendersi.
Dalla nostra storia dobbiamo imparare.
Parliamoci, autorganizziamoci, costruiamo reti transfemministe e queer dal basso, diamo vita a spazi sicuri per noi, e pericolosi per chi si sente in diritto di toccare i corpi delle donne e delle persone queer.
PER L’AUTOGESTIONE DEL CORPO, DELLA SESSUALITÀ E DELLE RELAZIONI.
CONTRO GOVERNI E SACRA FAMIGLIA.
Soggettività queer e femministe della Federazione Anarchica – Milano

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Presentazione del libro “La casa vivente”

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Presentazione EMMA rivista n. 02

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