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Guerra, energia, capitalismo

Guerra, energia, capitalismo

Quanto in corso nell’est europeo mette sotto i riflettori diverse questioni, tra le quali il rapporto tra guerra ed energia, dove i media non sempre colgono le complessità di questa relazione. La vicenda russo-ucraina fa emergere due nodi fondamentali, uno geopolitico e l’altro economico, nei quali l’energia gioca un ruolo decisivo. Per quanto riguarda l’aspetto geopolitico i mezzi d’informazione tendono a sottolineare solo la dipendenza della UE dalle fonti energetiche russe, gas in particolare. Il dibattito è quindi rivolto alla ricerca di altri fornitori internazionali (la recente visita di Di Maio unitamente all’ad di ENI De Scalzi in Qatar ne è un esempio) o altre fonti energetiche, dal carbone al nucleare alle rinnovabili. Vi è un aspetto invece trascurato, ma decisivo.

Il conflitto ripropone all’Europa un tema centrale, quello di trovare nello scacchiere internazionale un proprio autonomo spazio di là delle tradizionali alleanze politiche e militari atlantiche. L’Europa, ancora una volta, non ha una posizione unitaria, si presenta in ordine sparso nella gestione diplomatica e militare del conflitto. Solo alcuni leader, Macron e Scholz, hanno un filo diretto con Putin, mentre i referenti politici degli altri paesi rimangono in secondo piano o sono del tutto assenti. Anche gli aiuti, compresi quelli bellici, all’Ucraina sono frutto di iniziative di singoli paesi. Emerge in modo chiaro e netto la mancanza di una visione condivisa europea.

Se la UE non è compatta nell’affrontare la crisi non è solo la risultanza di una incompiuta unità politica ma è legata a doppio filo alla questione energetica. La dipendenza dalle fonti fossili russe (solo per il gas la UE importa il 45% del suo fabbisogno dalla Russia, 25% la quota del petrolio), non è equamente divisa fra i 27 stati membri. Italia e soprattutto Germania ne dipendono in modo decisivo: l’Italia importa dalla Russia il 40% del gas, la Germania ne dipende per il 50%, mentre altri, ad esempio la Francia, non hanno significativi legami energetici con Mosca. Uno degli obiettivi strategici di Putin è quello di dividere l’Europa e l’arma energetica è quella più efficace.

La storia del Nord Stream 2 – il più importante progetto di collegamento energetico tra Russia e Germania (temporaneamente sospeso nello scorso mese dal cancelliere Scholz) – ci offre un significativo quadro di come gli interessi del capitalismo europeo, e in particolare tedesco, non abbiano una posizione unitaria nei confronti di Mosca. Il gasdotto, sebbene di proprietà della società russa Gazprom (uno dei leader mondiali del settore fossile,) è stato finanziato da cinque società europee (Uniper, Wintershall Dea, Shell, Omv ed Engie) e rappresenta, sotto il profilo geopolitico, un saldo legame con Putin. In Germania è da tempo attiva una lobby del gas capitanata dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che al giugno 2020 sedeva nei board della compagine petrolifera russa Rosneft e di Nord Stream AG, società che aveva costruito la prima pipeline Nord Stream 1.

Se la storia delle due pipeline Nord Stream ci dicono molto sulle relazioni di dipendenza di una parte del capitalismo occidentale con il Cremlino, dall’altro lato una parte importante dell’occidente, non solo europeo ma “atlantico”, sta prendendo posizioni radicalmente avverse a Putin, in particolare Gran Bretagna e Norvegia. L’inglese BP (British Petroleum, una delle maggiori multinazionali del settore energetico) e il più importante fondo sovrano mondiale Norges (gestito dalla banca centrale norvegese) hanno dismesso la loro partecipazione azionaria in Rosfnet, la principale compagnia energetica russa, innestando un effetto domino. Equinor, il gigante dell’energia norvegese, ha dichiarato che non ha più intenzione di investire in Russia.

Non è un caso che le decisioni radicali di BP e Norges siano facilitate dalla minore dipendenza energetica da Mosca a differenza di alcuni paesi europei. Ancora una volta l’energia divide non solo la UE ma anche le alleanze atlantiche: le contraddizioni europee sono emerse in modo evidente anche nell’incontro di capi di governo della UE tenutosi a Versailles tra il 10 e l’11 marzo. La Francia ha proposto un debito comune europeo, in sintesi un Recovery Fund bellico-energetico; l’idea è stata divisiva, con l’Italia favorevole e contrari Germania e Olanda. Di fatto si ripropone, come per altre questioni – vedi il “ritorno” del nucleare, il progetto di un esercito europeo e l’ipotesi di una nuova “Agenzia del debito Europeo” – un asse franco-italiano in contrapposizione ai paesi nord UE. Anche l’idea di nuove sanzioni nei confronti di Mosca non ha trovato piena condivisione. In sintesi la questione energia-geopolitica ci consegna un occidente diviso e di fatto poco incisivo, pressoché inerte nel trovare soluzioni comuni.

Pure per l’aspetto economico del rapporto guerra-energia la narrazione dei media è alquanto approssimativa. L’informazione fa risalire alla vicenda bellica la causa dello straordinario aumento dei prezzi energetici e delle materie prime: ricordiamo che in un anno gli aumenti sono stati del +131% per la luce e del +94% per il gas naturale. La relazione guerra-energia-rialzo dei prezzi ci conduce a valutazioni che esulano direttamente dalle vicende belliche in corso ma coinvolgono altri aspetti: i conflitti non si svolgono solo sui campi di battaglia ma anche e soprattutto nelle sedi delle banche centrali e nelle principali istituzioni finanziarie. La moneta, i tassi di interesse, gli strumenti finanziari tra i quali i futures hanno la medesima valenza dei più sofisticati ed avanzati sistema d’arma – tra la guerra e l’energia emerge un altro attore, il vero protagonista: la finanza.

Occorre sfatare un luogo comune, divulgato dai media e dagli opinionisti al soldo del sistema. I prezzi dell’energia, ai quali bisogna associare quello delle materie prime e generi alimentari, non si sono impennati solo a causa delle recenti vicende belliche ma sono il frutto di speculazioni finanziarie. I prezzi internazionali delle materie prime sono esplosi sulla spinta dei titoli finanziari o meglio dei futures, strumenti che, per le loro caratteristiche tecniche, moltiplicano all’infinito i prezzi senza che vi sia un reale, concreto, aumento della domanda di beni o viceversa di scarsità dell’offerta. In altre parole il prezzo sfugge alla logica della domanda e dell’offerta, non riflette più lo scambio di beni fisici, segue invece le contrattazioni finanziare che a loro volta sono influenzate dai futures – vere e proprie “scommesse” sulla previsione dei prezzi di beni.

Se dall’inizio della pandemia vi è stata una certa difficoltà a rifornire di merci il mercato globale, per le ovvie e note problematicità nella produzione e trasporto di merci, non vi è oggi alcuna giustificazione per l’aumento esponenziale delle bollette del gas, dell’elettricità o del rifornimento di carburanti. Ad oggi non vi è stata alcuna sospensione delle forniture di oro nero o blu da parte della Russia verso l’Europa che possa giustificare un rialzo drammatico dei costi energetici che sta drenando le risorse, già scarse, nelle tasche dei produttori (in contemporanea si stanno alzando a dismisura i profitti delle imprese energetiche). Né tantomeno sono stati sospesi i pagamenti, via Swift, a Gazprom: in sintesi la Russia rifornisce l’Europa e questa fa affluire nelle tasche di Putin un miliardo di euro al giorno. Gli effetti del conflitto, nonché delle “dure” sanzioni occidentali non colpiscono, al momento, il flusso vitale per i due contendenti principali, Occidente e Russia: l’energia fluisce da est a ovest e da qui si provvede con puntualità quotidiana a saldare il conto, contribuendo, oltretutto, in modo deciso a finanziare i costi della guerra.

È quindi del tutto evidente che l’esplosione dei prezzi non dipende dal mercato “fisico” ma è figlia della speculazione, innanzitutto dei titoli energetici. L’esempio più chiaro lo si ha nella quotazione del brent WTI (petrolio estratto in Texas): il WTI sul mercato viene quotato tramite lo strumento dei contratti futures e interessa e influenza ben due mercati finanziari: New York Mercantile Exchange (NYMEX) ed International Exchange. Osservando l’andamento della quotazione WTI nel periodo 8 marzo-10 marzo vediamo che nel giro di soli tre giorni di mercato si è passati da un valore di 130 dollari al barile a 90 dollari.

In ogni caso il processo di finanziarizzazione dell’economia non è un fenomeno attuale ma ha preso piede dai primi anni del 2000 e sono cinque i passaggi fondamentali che hanno permesso la transizione dal capitalismo produttivo a quello speculativo finanziario. L’amministrazione Clinton, nel 1999, aboliva il Glass-Steall Act, (provvedimento del 1931 che separava le banche commerciali da quelle di investimento) e, soprattutto, si è introdotta nel mercato del credito la cartolarizzazione – insomma la possibilità di trasferire i crediti, quindi il loro rischio, in una miriade di titoli da vendersi a pioggia sul mercato. In poche parole si ribaltava il rischio dell’insolvenza del credito in capo alle banche e alle finanziarie su un esercito di piccoli investitori. Per ultimo i derivati, tra i quali i futures, hanno dismesso il loro compito originario di strumenti a copertura della fluttuazione dei cambi o dei prezzi per diventare degli autentici strumenti di “scommessa”, soprattutto per il mercato energetico e dei prodotti agricoli. I derivati hanno inoltre avuto un decisivo impulso da quello che è definita la “finanza ombra”, cioè la possibilità tecnica attraverso le piattaforme informatiche e l’utilizzo di algoritmi per un numero infinito di operatori di operare sul mercato finanziario in tempo reale. Si è in tal modo moltiplicato e velocizzato il numero delle transazioni finanziarie e quindi la possibilità di influenzare l’andamento dei prezzi. In poche parole il valore del prodotto fisico non dipende più solo dal reale scambio sul mercato (domanda e offerta) ma dalla previsione del suo valore.

Ultimo fattore decisivo per innescare la speculazione sui prodotti energetici è il mercato dei certificati dei crediti di carbonio. I produttori di energia elettrica, come stabilito dal protocollo di Kyoto, al fine di ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei settori energivori, devono approvvigionarsi, tramite aste, sul mercato delle quote necessarie per coprire il proprio fabbisogno di emissioni. Nel 2005 è stato istituito l’EU ETS il più grande mercato sistema internazionale per lo scambio di quote di emissione di carbonio. In sintesi le grandi aziende produttrici d’energia sono obbligate a comprare tali certificati per compensare l’emissione di CO2 che rilasciano nell’atmosfera: pagare per poter continuare a inquinare. Su tali mercati si è innestata la speculazione finanziaria tramite i futures influenzando in tal modo gli oneri delle società energetiche. Nell’arco di un anno dal marzo 2021 ad oggi la quotazione dei futures sui crediti in carbonio è più che raddoppiata contribuendo alla crescita dei costi energetici.

Le soluzioni proposte dai media per rompere il ciclo guerra-energia-aumento delle bollette sono solo risposte “tampone”: si va dal ritorno “temporaneo” del carbone, al ritorno invece stabile del nucleare, o incentivare lo sviluppo delle rinnovabili. Altra misura è la revisione del costo della bolletta, sgravandola da oneri quali il contributo per lo “smantellamento” delle centrali nucleari inattive.

Sgravare le bollette di tali oneri gioverebbe soprattutto a chi ha meno risorse: tali misure sono solo parziali e non affrontano il nocciolo del problema – la speculazione finanziaria. La soluzione sarebbe una sola: quella di ricondurre i derivati al loro scopo originario cioè quello della protezione della fluttuazione dei prezzi per operazioni reali. Va da sé che tale misura non verrà mai adottata da un sistema, quello capitalista, che in buona parte (soprattutto in occidente) ha “dismesso” gli investimenti e la produzione. Il profitto deriva da decenni dalla compressione dei salari e dalla ricerca del minor costo del lavoro (delocalizzazioni e proliferazione dei contratti a termine) nonché dalla speculazione finanziaria.

In conclusione la guerra nel suo rapporto con l’energia fa emergere le contraddizioni di un sistema che sta mostrando la corda e che non riesce più ad autoriformarsi. Costruire relazioni tra umani che non abbiano il profitto come fine è sempre meno utopico ma concreta alternativa.

Daniele Ratti

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


Assemblea cittadina – Milano contro la guerra

Assemblea cittadina – Milano contro la guerra. Iniziativa di Milano antifascista antirazzista meticcia e solidale.

Martedì 29 Marzo, ore 21.00, presso Ateneo Libertario, viale Monza 255

Posted in Antimilitarismo.


Convegno di studio su Eni e missioni militari italiane in Africa

Guerra e energia: l’Eni e le missioni militari italiane in Africa

Inizio convegno h.10.30 presso Laboratorio occupato Kasciavit

Introduzione di un compagno dell’Assemblea Antimilitarista

Stefano Capello
La politica energetica italiana tra la prima e la seconda Repubblica. Continuità e rotture

Daniele Ratti
L’ENI Armata

Inizio discussione

pausa pranzo

ripresa 14.30

Antonio Mazzeo
Le avventure neocoloniali dell’Italia dal Sahel al Mozambico

Andrea Turco
La colonizzazione mentale, il caso ENI a Gela

Massimo Varengo
Uno sguardo antimperialista sulla guerra in Ucraina

Interventi aperti

Posted in Antimilitarismo.


Manifestazione cittadina. Di nuovo in piazza contro la guerra

Posted in Antimilitarismo.


Lotto Marzo 2022: Contro tutti i militarismi, massima espressione del machismo e dell’autoritarismo patriarcale

 

CONTRO TUTTI I MILITARISMI,

MASSIMA ESPRESSIONE DEL MACHISMO E DELL’AUTORITARISMO PATRIARCALE

 

Come compagne e compagni dell’Ateneo Libertario di Milano e della Federazione Anarchica Milanese, oggi scioperiamo non soltanto contro il patriarcato, ma anche contro la guerra, una delle sue espressioni più alte e violente. Il potere militare e poliziesco è infatti complice di riprodurre la logica e la cultura dell’oppressione etero-cis-patriarcale che ostacola quotidianamente i nostri percorsi di liberazione.

Come anarchiche e antimilitariste ci schieriamo contro ogni forma di potere e di dominio, contro ogni gerarchia e rivendichiamo l’autodeterminazione. Da sempre lottiamo contro il sistema patriarcale, che concepisce le relazioni come dominio e proprietà e attua il suo programma con lo strumento del ricatto economico, dell’oppressione e della violenza delle armi e dello stupro. Le armi italiane sono presenti su tutti i teatri di guerra. Guerre che paiono lontane sono invece vicinissime: non solo perché le aziende che le producono le abbiamo in casa, come il colosso pubblico Leonardo S.p.A., ma anche perché è sempre più crescente la penetrazione della propaganda dell’Esercito nelle scuole e nelle università, come la stipula di accordi per lo svolgimento dell’alternanza scuola-lavoro nelle caserme o gli accordi che la Leonardo S.p.A. ha stipulato con diverse università italiane, tra cui il Politecnico di Milano (il cui rettore, Ferruccio Resta, è addirittura membro del consiglio di amministrazione della Leonardo). L’industria bellica è un business che non va mai in crisi, nemmeno con la pandemia. Nel 2022 le spese militari italiane hanno superato i 26 miliardi di euro e le vendite dei 100 maggiori produttori di armi al mondo sono aumentate del 1,3% rispetto a prima della pandemia. Tra questi la Leonardo si è classificata al 13° posto della classifica globale. L’aumento delle risorse per la guerra e i suoi profitti sono inversamente proporzionali al calo delle risorse destinate alle reali necessità sociali che riguardano la maggioranza della popolazione mondiale come sanità, istruzione, cultura, trasporti, ambiente, lavoro e garanzie sociali. Un solo giorno di spesa militare, pari a 70 milioni di euro, corrisponde al costo di 7 nuovi edifici per la scuola media inferiore o al costo complessivo di 482 studenti che completano l’intero ciclo di istruzione dalla materna fino alla laurea. Rispetto gli altri paesi europei il personale sanitario è diminuito del 4,9% negli ultimi otto anni. Le famiglie totalmente indigenti sono il 7,7% in più rispetto al 2019. Le condizioni salariali registrano record negativi. Aumentano i lavoratori con bassa paga oraria e in Italia i salari, rispetto al 1990, sono diminuiti del 2,9%. La disoccupazione tra i giovani laureati (17,9%) e diplomati (27,7%) è il doppio della media europea. A guidare la classifica delle emissioni nocive non sono i colossi chimici o petroliferi, ma la difesa e gli armamenti, con il 15% dell’inquinamento complessivo. Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade così come i confini.

 

ATENEO LIBERTARIO

FEDERAZIONE ANARCHICA – MILANO

Posted in Antimilitarismo, Comunicati, Contro l'eteropatriarcato.


Iniziative di studio e di piazza dell’assemblea antimilitarista sul territorio milanese

Posted in Antimilitarismo.


Chiamata per Lotto Marzo 2022

Come Ateneo Libertario e Federazione Anarchica Milanese aderiamo e partecipiamo alla giornata di mobilitazione dell’8 Marzo lanciata dalla rete di Non Una Di Meno – Milano. Invitiamo tutti, tutt e tutte le compagne libertarie a unirsi al nostro spezzone anarchico nel corteo cittadino!
Nè Dio, nè Stato, nè etero-cis-patriarcato!🖤💜

Posted in Contro l'eteropatriarcato.


Contro la guerra, contro gli Stati

Contro la guerra, contro gli stati

Eravamo stati facili profeti nel 1999 all’indomani dei bombardamenti sulla Serbia da parte degli aerei Nato – dei quali era parte la squadriglia italiana inviata dal governo D’Alema – nel prevedere che la politica d’espansione ad Est degli Stati Uniti avrebbe avuto, prima o poi, dei contraccolpi.

L’inserimento, a forza di bombe, nello scenario di una Yugoslavia in decomposizione, con la militarizzazione del Kosovo – le truppe italiane sono ancora lì – evidenziava l’inizio di una politica di avvicinamento militare a quello che rimaneva dell’ex Unione Sovietica approfittando della profonda crisi in cui versava dopo il suo scioglimento e il “libera tutti” alle varie repubbliche federative dal Baltico, all’Ucraina, alla Bielorussia, a quelle asiatiche e caucasiche. Non a caso è lo stesso 1999 che registra la prima entrata di paesi dell’ex Patto di Varsavia nella NATO: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca.

Affossando sul piano concreto le promesse, fatte a Gorbaciov, di non allargamento della NATO nei territori fino ad allora demandati al controllo sovietico – in seguito agli accordi seguiti alla fine della seconda guerra mondiale – con la difesa strumentale della minoranza albanese nei territori serbi, ma maggioranza nel Kosovo, l’alleanza atlantica, su spinta USA, dava inizio alla penetrazione nei paesi baltici, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia (favorendone la scissione in due parti) e poi nei Balcani (Albania, Montenegro, Croazia, Slovenia, Macedonia del Nord) associandoli progressivamente sul piano militare.

Così facendo il baricentro delle basi militari USA si è spostato progressivamente ad Est mettendo sotto tiro la Russia, ansiosa a sua volta di ritornare a garantirsi la sua egemonia nell’area slava.

Nel 2008 l’attacco della Georgia – sostenuta dagli USA – alla provincia secessionista dell’Ossezia del sud per il controllo di quel territorio e dell’Abkhazia diede origine a un conflitto breve ma intenso con la Federazione Russa e fu il primo segnale di una ripresa di quest’ultima contro una politica atlantica intesa come di vero e proprio accerchiamento. Accerchiamento teso alla riduzione della Russia a semplice potenza regionale, come successivamente affermato da Obama, per permettere agli USA di concentrarsi sul nemico emergente, la Cina. In risposta, da allora Putin ha perseguito il suo obiettivo di dotare la Federazione di una dotazione bellica di tutto rispetto in grado di riportare la Russia a un ruolo di protagonista sul panorama internazionale, con risultati altalenanti (ricordiamoci della sconfitta dell’alleato armeno nella guerra del Nagorno-Karabakh) e con un’opposizione crescente sul piano interno.

A tutto questo gli USA hanno replicato ritirandosi, quasi tre anni fa, dall’accordo sui missili nucleari intermedi in Europa rilanciando di fatto il processo di riarmo in Europa e proponendo nuovi trattati costruiti sul principio che la Russia non può opporre il veto alla presenza di armi nucleari e convenzionali nei paesi aderenti alla NATO. Armando e sostenendo l’Ucraina, gli USA hanno sostanziato il progetto di ampliamento dell’alleanza atlantica fino ai confini della Federazione in modo ben più significativo di quanto già ottenuto con l’adesione dell’Estonia all’Alleanza nel 2004.

George Kennan, il padre della politica del contenimento dell’URSS ai tempi della guerra fredda, ispiratore delle iniziative di Truman nel dopoguerra, ebbe a dichiarare nel ’97: «L’allargamento della NATO è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda… questa decisione susciterà tendenze nazionaliste e militariste anti occidentali… spingendo la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo».

Quello che registriamo oggi è figlio di quella politica. La Federazione Russa è di fatto una combinazione di poteri oligarchici – l’energetico, il militare, il politico con Putin che fa da baricentro – artefice di massacri in Cecenia e in Siria a fianco di Assad, sostenitrice di dittatori come in Bielorussia e in Kazakistan dove è intervenuta militarmente per reprimere le lotte proletarie, finanziatrice di truppe mercenarie come il Gruppo Wagner, presente in Libia e ora in Mali; e foraggiatrice – e abbiamo avuto modo di vederlo questi giorni in varie città italiane – di gruppi della destra estrema nazifascista e di quella sovranista. Per non parlare degli assassinii di giornalisti e di oppositori, dei nostri compagni e delle nostre compagne in galera, delle condizioni di lavoro e di sfruttamento, delle grandi ricchezze accumulate dagli oligarchi, frutto anche della spoliazione della proprietà pseudocollettivizzata del regime sovietico.

L’Ucraina, dal canto suo, resasi indipendente dalla Russia a partire dal 1991, non ha mai saputo, né potuto sviluppare un’economia in grado di renderla sufficientemente autonoma. Tra i paesi resisi indipendenti dall’URSS è quella che ha pagato il conto più salato per le terapie di restaurazione capitalistica; un dato: tra il 1990 e il 2017 la sua ‘crescita’ economica è stata la quinta peggiore al mondo. Proiettata verso occidente e aprendosi al ‘libero’ mercato non è stata in grado che di vivere di aiuti sia statunitensi che europei, sul sostegno alla moneta del Fondo Monetario Internazionale, sulle rimesse del suo popolo migrante, e ai residui legami socio-economici con la Russia rispetto alla quale ha un debito che supera i tre miliardi di dollari e che difficilmente verrà mai saldato. Preda degli appetiti degli oligarchi ultranazionalisti installatisi al potere dopo la rivolta di Maidan, con la corruzione come dato strutturale della propria esistenza, oggi l’Ucraina è oggetto di quanti vorrebbero la ‘liberalizzazione’ del mercato della terra (il paese è il più grande produttore mondiale dell’olio di girasole e il quarto nella produzione di mais) e di quanto rimane delle imprese statali. L’insurrezione popolare del 2014, cresciuta sull’onda di una profondissima crisi economica, contro il governo filorusso al potere, e che ha visto il sopravvento delle componenti reazionarie e nazionaliste, ha inteso tagliare profondamente il rapporto storico, culturale, politico, economico con la Russia rilanciando nell’immaginario ucraino figure come il collaborazionista dei nazisti Stepan Bandera, o addirittura il nostro Nestor Machkno presentato come l’eroe nazionalista antirusso, spogliato di ogni progettualità comunista libertaria. L’obiettivo, da allora, è stato quello di dare forza alla ‘nazione’ ucraina imponendo una lingua unica in uno stato plurinazionale (significativa la presenza ungherese). Ma è complicato recidere questo rapporto come lo è stato per quello esistente tra la Serbia e il Kosovo. Kiev è considerata dai russi come un riferimento di primaria importanza per lo sviluppo della Russia moderna e per gli ortodossi russi Kiev è come Roma per i cattolici, la metà della popolazione ucraina parla russo (e l’esclusione del russo dall’insegnamento scolastico è stato vissuto come un attacco di marca razzista). Il conflitto che si è acceso nel Donbass affonda le sue radici in questo tentativo di sradicamento, registrando l’opposizione delle milizie russofone che, sostenute da Mosca, rivendicano l’indipendenza e il collegamento con quella che è considerata una sorta di madrepatria. Quattordicimila morti in otto anni sono il frutto di quel conflitto che non ha mai trovato una soluzione, stante la rigidità dei nazionalisti ucraini e gli appetiti delle milizie russofone armate da Mosca. La stessa occupazione della Crimea, con il conseguente controllo del Mar Nero, rientra nello stesso piano di risposta di Putin a quello che è vissuto come un progressivo accerchiamento e ha posto le basi per una progressiva spartizione del paese, come parrebbe capire dalla guerra d’aggressione in atto.

Dietro la crisi attuale c’è, in buona sostanza, una storia di violenza strutturale, di militarismo e di sopraffazione economica. Tutti i soggetti in campo (Russia, Stati Uniti, Nato, UE) hanno un modo di porsi imperialistico, all’esterno dei confini agendo con operazioni militari o economiche per condizionare e eterodirigere i territori e i paesi che ritengono all’interno della propria sfera d’influenza – concetto questo assai variabile e dipendente dalle necessità di approvvigionamento energetico e di conquista dei mercati – e all’interno dei confini reprimendo le proteste popolari, le minoranze critiche, le opposizioni politiche. Se la Federazione Russa oggi invade l’Ucraina, gli USA negli ultimi decenni hanno rovesciato governi solo se minacciavano i loro interessi, scatenando guerre in Iraq e Afghanistan, bombardando la Libia e la Siria, sostenendo Israele nella repressione dei palestinesi. Proporre l’Ucraina come bandiera della libertà e della democrazia a fronte dell’oligarchia russa, per mobilitare le masse (come stanno cercando di fare tutti i mass media al soldo della propaganda) fa semplicemente ridere se non ci fossero le povere vittime cadute sotto le bombe di un gioco delle parti, entrambe figlie del sistema di potere statalista e gerarchico.

L’Ucraina è stata spinta in un vicolo cieco dai suoi pelosi alleati per verificare fino in fondo dove le politiche espansionistiche dell’imperialismo statunitense ed europeo possono arrivare senza scatenare una guerra mondiale; perché per questa c’è ancora tempo e si tratta di verificare prima la reazione della Cina al rafforzamento del supporto a Taiwan. L’aggressione russa, tra l’altro, ha avuto come effetto quello di ricomporre il fronte NATO a tutto vantaggio delle politiche USA.

Pesano inoltre le scadenze elettorali in Russia e lo stato d’isolamento nel quale si trova Biden dopo gli insuccessi dei primi mesi della sua presidenza. Fare la voce grossa, mostrare i muscoli sembra l’unica via d’uscita alle difficoltà incontrate nell’esercizio del potere. Putin usa l’artiglieria per garantirsi il consenso della componente nazionalista della popolazione, Biden fa il duro con Cuba, in termini addirittura più sprezzanti di quelli usati da Trump, per assicurarsi i voti della Florida nelle elezioni di midterm di novembre. Fiumi di soldi USA (solo un miliardo di dollari nel mese di gennaio) ed europei vengono inviati a sostegno dell’armamento ucraino, per prolungare un conflitto che non può che assumere il volto di tutte le guerre: massacri e sofferenze di persone indifese.

E allora, che fare?

Dovremmo schierarci o con l’imperialismo russo o con quello occidentale, quando entrambi perseguono politiche di potenza e di sopraffazione, all’interno e all’esterno dei propri confini? I confini polacchi, ad esempio: strumenti di morte per tutto quel popolo migrante che, in fuga da altre guerre, si è visto respingere nel gelo dei boschi e che ora si aprono per accogliere i profughi ucraini, manodopera qualificata a basso costo per lo sviluppo economico del paese.

Dovremmo schierarci in quella che è una tragica, sanguinaria, guerra di spartizione imperialista dove il patriottismo e il nazionalismo vengono sbandierati per confondere le acque, per nascondere i reali obiettivi della lotta, ossia l’accumulazione capitalista e l’affermazione di potenza degli stati vittoriosi?

Dovremmo piegarci alla prospettiva di un’evoluzione dell’Unione europea in un blocco coerente dotato di un esercito unico e di una politica unica, per diventare parte sempre più attiva nella spartizione del mondo?

Siamo e rimaniamo internazionalisti, contro gli stati, contro il capitalismo, per la rivoluzione sociale.

“Qualunque stato, anche quello rivestito delle forme più liberali e democratiche, è necessariamente fondato sul predominio, sulla dominazione, sulla violenza e quindi sul dispotismo. (…) L’imperialismo non è una deviazione dello stato, ma un suo elemento costitutivo: ove regna la forza questa deve senz’altro agire, e per non essere conquistato, lo stato deve farsi stato militare e indi conquistatore. (…) Lo stato, come soggetto astratto di cui si sono appropriati i dominatori, deve essere rovesciato sul piano concreto: il potere deve essere distrutto in modo irreversibile e perentorio, non è contemplabile altra via che la Rivoluzione Sociale per la conquista della libertà popolare”. (Michail Bakunin, Stato e anarchia)

L’unico schieramento possibile è con quanti lottano contro gli imperialismi di qualsiasi specie, gli interventi militari, il nazionalismo; con chi soffre sotto le bombe del potente di turno (in Ucraina, ma anche in Siria, in Yemen, in Etiopia, ecc.); con chi coraggiosamente – come in Russia – manifesta contro la guerra e la politica di distruzione e di morte.

L’unico impegno possibile è nella lotta contro il nostro imperialismo che manda soldati e mezzi a sostegno della NATO, in Lituania come in Romania e nel Mar Nero, oppure li invia nel continente africano a sostegno delle politiche di rapina delle ‘nostre’ imprese e dei ‘nostri’ oligarchi. Oppure ancora li sguinzaglia per le strade delle nostre città e li promuove in ruoli civili (come il generale Figliuolo).

Nessun individuo, nessuna risorsa per la guerra degli stati!

Massimo Varengo

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.