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Iniziative di studio e di piazza dell’assemblea antimilitarista sul territorio milanese

Posted in Antimilitarismo.


Chiamata per Lotto Marzo 2022

Come Ateneo Libertario e Federazione Anarchica Milanese aderiamo e partecipiamo alla giornata di mobilitazione dell’8 Marzo lanciata dalla rete di Non Una Di Meno – Milano. Invitiamo tutti, tutt e tutte le compagne libertarie a unirsi al nostro spezzone anarchico nel corteo cittadino!
Nè Dio, nè Stato, nè etero-cis-patriarcato!🖤💜

Posted in Contro l'eteropatriarcato.


Contro la guerra, contro gli Stati

Contro la guerra, contro gli stati

Eravamo stati facili profeti nel 1999 all’indomani dei bombardamenti sulla Serbia da parte degli aerei Nato – dei quali era parte la squadriglia italiana inviata dal governo D’Alema – nel prevedere che la politica d’espansione ad Est degli Stati Uniti avrebbe avuto, prima o poi, dei contraccolpi.

L’inserimento, a forza di bombe, nello scenario di una Yugoslavia in decomposizione, con la militarizzazione del Kosovo – le truppe italiane sono ancora lì – evidenziava l’inizio di una politica di avvicinamento militare a quello che rimaneva dell’ex Unione Sovietica approfittando della profonda crisi in cui versava dopo il suo scioglimento e il “libera tutti” alle varie repubbliche federative dal Baltico, all’Ucraina, alla Bielorussia, a quelle asiatiche e caucasiche. Non a caso è lo stesso 1999 che registra la prima entrata di paesi dell’ex Patto di Varsavia nella NATO: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca.

Affossando sul piano concreto le promesse, fatte a Gorbaciov, di non allargamento della NATO nei territori fino ad allora demandati al controllo sovietico – in seguito agli accordi seguiti alla fine della seconda guerra mondiale – con la difesa strumentale della minoranza albanese nei territori serbi, ma maggioranza nel Kosovo, l’alleanza atlantica, su spinta USA, dava inizio alla penetrazione nei paesi baltici, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia (favorendone la scissione in due parti) e poi nei Balcani (Albania, Montenegro, Croazia, Slovenia, Macedonia del Nord) associandoli progressivamente sul piano militare.

Così facendo il baricentro delle basi militari USA si è spostato progressivamente ad Est mettendo sotto tiro la Russia, ansiosa a sua volta di ritornare a garantirsi la sua egemonia nell’area slava.

Nel 2008 l’attacco della Georgia – sostenuta dagli USA – alla provincia secessionista dell’Ossezia del sud per il controllo di quel territorio e dell’Abkhazia diede origine a un conflitto breve ma intenso con la Federazione Russa e fu il primo segnale di una ripresa di quest’ultima contro una politica atlantica intesa come di vero e proprio accerchiamento. Accerchiamento teso alla riduzione della Russia a semplice potenza regionale, come successivamente affermato da Obama, per permettere agli USA di concentrarsi sul nemico emergente, la Cina. In risposta, da allora Putin ha perseguito il suo obiettivo di dotare la Federazione di una dotazione bellica di tutto rispetto in grado di riportare la Russia a un ruolo di protagonista sul panorama internazionale, con risultati altalenanti (ricordiamoci della sconfitta dell’alleato armeno nella guerra del Nagorno-Karabakh) e con un’opposizione crescente sul piano interno.

A tutto questo gli USA hanno replicato ritirandosi, quasi tre anni fa, dall’accordo sui missili nucleari intermedi in Europa rilanciando di fatto il processo di riarmo in Europa e proponendo nuovi trattati costruiti sul principio che la Russia non può opporre il veto alla presenza di armi nucleari e convenzionali nei paesi aderenti alla NATO. Armando e sostenendo l’Ucraina, gli USA hanno sostanziato il progetto di ampliamento dell’alleanza atlantica fino ai confini della Federazione in modo ben più significativo di quanto già ottenuto con l’adesione dell’Estonia all’Alleanza nel 2004.

George Kennan, il padre della politica del contenimento dell’URSS ai tempi della guerra fredda, ispiratore delle iniziative di Truman nel dopoguerra, ebbe a dichiarare nel ’97: «L’allargamento della NATO è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda… questa decisione susciterà tendenze nazionaliste e militariste anti occidentali… spingendo la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo».

Quello che registriamo oggi è figlio di quella politica. La Federazione Russa è di fatto una combinazione di poteri oligarchici – l’energetico, il militare, il politico con Putin che fa da baricentro – artefice di massacri in Cecenia e in Siria a fianco di Assad, sostenitrice di dittatori come in Bielorussia e in Kazakistan dove è intervenuta militarmente per reprimere le lotte proletarie, finanziatrice di truppe mercenarie come il Gruppo Wagner, presente in Libia e ora in Mali; e foraggiatrice – e abbiamo avuto modo di vederlo questi giorni in varie città italiane – di gruppi della destra estrema nazifascista e di quella sovranista. Per non parlare degli assassinii di giornalisti e di oppositori, dei nostri compagni e delle nostre compagne in galera, delle condizioni di lavoro e di sfruttamento, delle grandi ricchezze accumulate dagli oligarchi, frutto anche della spoliazione della proprietà pseudocollettivizzata del regime sovietico.

L’Ucraina, dal canto suo, resasi indipendente dalla Russia a partire dal 1991, non ha mai saputo, né potuto sviluppare un’economia in grado di renderla sufficientemente autonoma. Tra i paesi resisi indipendenti dall’URSS è quella che ha pagato il conto più salato per le terapie di restaurazione capitalistica; un dato: tra il 1990 e il 2017 la sua ‘crescita’ economica è stata la quinta peggiore al mondo. Proiettata verso occidente e aprendosi al ‘libero’ mercato non è stata in grado che di vivere di aiuti sia statunitensi che europei, sul sostegno alla moneta del Fondo Monetario Internazionale, sulle rimesse del suo popolo migrante, e ai residui legami socio-economici con la Russia rispetto alla quale ha un debito che supera i tre miliardi di dollari e che difficilmente verrà mai saldato. Preda degli appetiti degli oligarchi ultranazionalisti installatisi al potere dopo la rivolta di Maidan, con la corruzione come dato strutturale della propria esistenza, oggi l’Ucraina è oggetto di quanti vorrebbero la ‘liberalizzazione’ del mercato della terra (il paese è il più grande produttore mondiale dell’olio di girasole e il quarto nella produzione di mais) e di quanto rimane delle imprese statali. L’insurrezione popolare del 2014, cresciuta sull’onda di una profondissima crisi economica, contro il governo filorusso al potere, e che ha visto il sopravvento delle componenti reazionarie e nazionaliste, ha inteso tagliare profondamente il rapporto storico, culturale, politico, economico con la Russia rilanciando nell’immaginario ucraino figure come il collaborazionista dei nazisti Stepan Bandera, o addirittura il nostro Nestor Machkno presentato come l’eroe nazionalista antirusso, spogliato di ogni progettualità comunista libertaria. L’obiettivo, da allora, è stato quello di dare forza alla ‘nazione’ ucraina imponendo una lingua unica in uno stato plurinazionale (significativa la presenza ungherese). Ma è complicato recidere questo rapporto come lo è stato per quello esistente tra la Serbia e il Kosovo. Kiev è considerata dai russi come un riferimento di primaria importanza per lo sviluppo della Russia moderna e per gli ortodossi russi Kiev è come Roma per i cattolici, la metà della popolazione ucraina parla russo (e l’esclusione del russo dall’insegnamento scolastico è stato vissuto come un attacco di marca razzista). Il conflitto che si è acceso nel Donbass affonda le sue radici in questo tentativo di sradicamento, registrando l’opposizione delle milizie russofone che, sostenute da Mosca, rivendicano l’indipendenza e il collegamento con quella che è considerata una sorta di madrepatria. Quattordicimila morti in otto anni sono il frutto di quel conflitto che non ha mai trovato una soluzione, stante la rigidità dei nazionalisti ucraini e gli appetiti delle milizie russofone armate da Mosca. La stessa occupazione della Crimea, con il conseguente controllo del Mar Nero, rientra nello stesso piano di risposta di Putin a quello che è vissuto come un progressivo accerchiamento e ha posto le basi per una progressiva spartizione del paese, come parrebbe capire dalla guerra d’aggressione in atto.

Dietro la crisi attuale c’è, in buona sostanza, una storia di violenza strutturale, di militarismo e di sopraffazione economica. Tutti i soggetti in campo (Russia, Stati Uniti, Nato, UE) hanno un modo di porsi imperialistico, all’esterno dei confini agendo con operazioni militari o economiche per condizionare e eterodirigere i territori e i paesi che ritengono all’interno della propria sfera d’influenza – concetto questo assai variabile e dipendente dalle necessità di approvvigionamento energetico e di conquista dei mercati – e all’interno dei confini reprimendo le proteste popolari, le minoranze critiche, le opposizioni politiche. Se la Federazione Russa oggi invade l’Ucraina, gli USA negli ultimi decenni hanno rovesciato governi solo se minacciavano i loro interessi, scatenando guerre in Iraq e Afghanistan, bombardando la Libia e la Siria, sostenendo Israele nella repressione dei palestinesi. Proporre l’Ucraina come bandiera della libertà e della democrazia a fronte dell’oligarchia russa, per mobilitare le masse (come stanno cercando di fare tutti i mass media al soldo della propaganda) fa semplicemente ridere se non ci fossero le povere vittime cadute sotto le bombe di un gioco delle parti, entrambe figlie del sistema di potere statalista e gerarchico.

L’Ucraina è stata spinta in un vicolo cieco dai suoi pelosi alleati per verificare fino in fondo dove le politiche espansionistiche dell’imperialismo statunitense ed europeo possono arrivare senza scatenare una guerra mondiale; perché per questa c’è ancora tempo e si tratta di verificare prima la reazione della Cina al rafforzamento del supporto a Taiwan. L’aggressione russa, tra l’altro, ha avuto come effetto quello di ricomporre il fronte NATO a tutto vantaggio delle politiche USA.

Pesano inoltre le scadenze elettorali in Russia e lo stato d’isolamento nel quale si trova Biden dopo gli insuccessi dei primi mesi della sua presidenza. Fare la voce grossa, mostrare i muscoli sembra l’unica via d’uscita alle difficoltà incontrate nell’esercizio del potere. Putin usa l’artiglieria per garantirsi il consenso della componente nazionalista della popolazione, Biden fa il duro con Cuba, in termini addirittura più sprezzanti di quelli usati da Trump, per assicurarsi i voti della Florida nelle elezioni di midterm di novembre. Fiumi di soldi USA (solo un miliardo di dollari nel mese di gennaio) ed europei vengono inviati a sostegno dell’armamento ucraino, per prolungare un conflitto che non può che assumere il volto di tutte le guerre: massacri e sofferenze di persone indifese.

E allora, che fare?

Dovremmo schierarci o con l’imperialismo russo o con quello occidentale, quando entrambi perseguono politiche di potenza e di sopraffazione, all’interno e all’esterno dei propri confini? I confini polacchi, ad esempio: strumenti di morte per tutto quel popolo migrante che, in fuga da altre guerre, si è visto respingere nel gelo dei boschi e che ora si aprono per accogliere i profughi ucraini, manodopera qualificata a basso costo per lo sviluppo economico del paese.

Dovremmo schierarci in quella che è una tragica, sanguinaria, guerra di spartizione imperialista dove il patriottismo e il nazionalismo vengono sbandierati per confondere le acque, per nascondere i reali obiettivi della lotta, ossia l’accumulazione capitalista e l’affermazione di potenza degli stati vittoriosi?

Dovremmo piegarci alla prospettiva di un’evoluzione dell’Unione europea in un blocco coerente dotato di un esercito unico e di una politica unica, per diventare parte sempre più attiva nella spartizione del mondo?

Siamo e rimaniamo internazionalisti, contro gli stati, contro il capitalismo, per la rivoluzione sociale.

“Qualunque stato, anche quello rivestito delle forme più liberali e democratiche, è necessariamente fondato sul predominio, sulla dominazione, sulla violenza e quindi sul dispotismo. (…) L’imperialismo non è una deviazione dello stato, ma un suo elemento costitutivo: ove regna la forza questa deve senz’altro agire, e per non essere conquistato, lo stato deve farsi stato militare e indi conquistatore. (…) Lo stato, come soggetto astratto di cui si sono appropriati i dominatori, deve essere rovesciato sul piano concreto: il potere deve essere distrutto in modo irreversibile e perentorio, non è contemplabile altra via che la Rivoluzione Sociale per la conquista della libertà popolare”. (Michail Bakunin, Stato e anarchia)

L’unico schieramento possibile è con quanti lottano contro gli imperialismi di qualsiasi specie, gli interventi militari, il nazionalismo; con chi soffre sotto le bombe del potente di turno (in Ucraina, ma anche in Siria, in Yemen, in Etiopia, ecc.); con chi coraggiosamente – come in Russia – manifesta contro la guerra e la politica di distruzione e di morte.

L’unico impegno possibile è nella lotta contro il nostro imperialismo che manda soldati e mezzi a sostegno della NATO, in Lituania come in Romania e nel Mar Nero, oppure li invia nel continente africano a sostegno delle politiche di rapina delle ‘nostre’ imprese e dei ‘nostri’ oligarchi. Oppure ancora li sguinzaglia per le strade delle nostre città e li promuove in ruoli civili (come il generale Figliuolo).

Nessun individuo, nessuna risorsa per la guerra degli stati!

Massimo Varengo

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


Giornata di lotta e di volantinaggio

 


Oggi come anarchiche e anarchici ci siamo unite al corteo contro la guerra per ribadire il nostro rifiuto dell’imperialismo degli Stati e delle coalizioni contendenti. Attraverso il volantinaggio e lo scambio di parola con le persone che si sono avvicinate incuriosite, abbiamo comunicato la nostra posizione antimilitarista che è quella del disfattismo rivoluzionario, della solidarietà e della ribellione contro gli alti comandi di ciascuno Stato.

 

Posted in Antimilitarismo.


Manifestazione cittadina contro la soluzione bellica

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Il gas e i venti di guerra. Un propellente dei conflitti presenti e futuri.

Il gas e i venti di guerra. Un propellente dei conflitti presenti e futuri.

La tensione internazionale creatasi tra NATO, Russia ed UE nella contesa ucraina può essere valutata anche alla luce della questione energetica. Relazioni internazionali ed energia sono fattori che si condizionano a vicenda: l’energia da componente economica si trasforma inevitabilmente in geopolitica modificando gli equilibri globali e nei “venti di guerra” di queste settimane il ruolo centrale spetta al gas.

Sul piano locale (rapporti UE/Russia) il gas lega a triplo filo gli interessi delle due parti. Il 48% dell’“oro blu” che viene bruciato in Europa proviene dalla Russia e circa il 60% dei proventi del gas russo vengono dall’UE. Tale situazione ha un immediato riflesso anche nelle relazioni globali: non è un caso che, tra i primi obiettivi dell’attuale amministrazione americana, vi siano stati il ricompattare politicamente e militarmente il fronte atlantico del lato nord ed est europeo e, contemporaneamente, ostacolare l’entrata in funzione del gasdotto North Stream2.

La pipeline (in fase di completamento ed attualmente in stand by per ragione burocratiche) collega direttamente la Russia e la Germania escludendo il transito in paesi terzi. Il North Stream 2 oltre che soddisfare vitali ragioni economiche (la sola Germania compra dalla Russia quasi 46 miliardi di metri cubi l’anno, contro gli appena 39 dell’Europa centro-orientale) è di fatto arma strategica nelle mani di Mosca.

Il legame economico diventa politico ed è nel contempo elemento divisivo all’interno dell’Europa e della NATO. La strategia di Mosca – qui sta il punto centrale geopolitico – è quella di creare o, meglio, mantenere in vita quelle divisioni intra-europee e quindi intra-NATO. Tali divisioni non hanno solo un aspetto politico ma trovano ragione anche nella ineguale fornitura di gas.

La progettazione del Nord Stream 2 taglia di fatto altri paesi come la Polonia e la Lituania: non è quindi un caso che le posizioni dei paesi europei, nei giorni di maggiore tensione, si siano differenziate. La Germania è stata la meno rigida nei confronti della Russia, così come la Francia si è proposta immediatamente per il dialogo con l’incontro tra Macron e Putin.

È da sottolineare l’attivismo francese. Macron, di là dell’immagine mediatica – l’uomo del “dialogo” – ha voluto rimarcare lo spazio politico intra-europeo che si sta ritagliando, con l’appoggio dell’Italia, all’interno dell’Europa. La Francia sta tentando di costituire un asse franco-italiano, in sostituzione di quell’accordo franco-tedesco che per decenni ha di fatto costituito un vero e proprio direttorio continentale. La nuova cordata franco-italiana, sancita due mesi fa dall’accordo del Quirinale, è anche un tentativo di rendere l’UE più autonoma nei confronti degli USA e della NATO. La proposta francese, appoggiata dall’Italia, di un esercito europeo non a caso ha suscitato una immediata e marcata reazione negativa da parte della NATO.

La corsa dei maggiori leaders europei al Cremlino, l’ultimo sarà Draghi invitato direttamente da Putin, sono il conto che la dipendenza energetica europea deve pagare a Mosca. In sintesi, se il gas è anche arma geopolitica, Putin ha messo a segno un risultato: quello di creare delle faglie all’interno del fronte atlantico.

Come reagire al ricatto energetico russo? Tre sono al momento le soluzioni. La prima è la ricerca di nuovi giacimenti al di fuori dell’area di influenza di Mosca; la seconda è l’utilizzo del gas nella forma liquida (GNL); l’ultima, tutta da verificare, lo sviluppo delle fonti energetiche alternative. La ricerca e messa in produzione di nuovi giacimenti oltre che siti già noti (nel 2021 il 22% del gas europeo è importato dalla Norvegia, mentre Algeria ed Azerabaigian partecipano entrambi con un 9%.) si sta orientando verso il Mediterraneo, precisamente il lato Est.

Alla scoperta del gigantesco giacimento egiziano di Zohr (ENI ne è stata la protagonista) si è affiancato il Consorzio East Med per lo sfruttamento del bacino di gas compreso tra Cipro e Israele, consorzio al quale partecipano Cipro, Grecia, Italia, Giordania, Israele e Autorità Nazionale Palestinese. Si stima che a pieno regime potrebbe rifornire di gas una quota pari al 10% di quello che viene attualmente consumato in Europa: l’East Med e Zhor rappresentano quindi una sfida diretta geopolitica tra Europa e Russia.

Il “Mediterraneo allargato” (termine coniato dagli analisti della difesa ma diventato ormai di uso comune) è la maggiore partita che si sta giocando, dal punto di vista energetico e geopolitico, tra Europa e Russia. Il rafforzamento del “Corridoio Sud” (l’insieme dei gasdotti e infrastrutture che trasportano il gas dal bacino euroasiatico meridionale) e la creazione di un hub del gas nel Mediterraneo (tramite l’East Med e il giacimento egiziano di Zhor) sono diretti concorrenti per Putin e la sua oligarchia energetica.

La seconda soluzione è prettamente tecnica ma con importanti riflessi strategici, cioè la scoperta di un nuovo metodo estrattivo Shale gas e la commercializzazione del gas sotto forma liquida, il GNL. Il Shale gas (gas estratto da giacimenti non convenzionali dei quali gli USA sono i leader mondiali) ha ampliato l’offerta sui mercati internazionali.

Il GNL (gas liquefatto) ha invece modificato la mappa dei paesi produttori di gas: gli USA e l’URSS., negli anni Settanta producevano l’80% del volume globale; la loro quota nel 2018 è scesa al 39% a favore di altri. Ora i protagonisti del GNL sono Qatar, Indonesia, Malesia, Australia e Nigeria. Questa frammentazione ha conseguito non solo un rimescolamento dal punto di vista economico ma anche e soprattutto geopolitico e militare. L’espansione del GNL, tramite produttori sparsi sui vari continenti, fa perdere “peso” al reticolo dei gasdotti mentre diventa determinante dal punto di vista geopolitico e militare il controllo dei mari, in particolare degli stretti.

Non è un caso allora che la marina militare stIa acquisendo sempre più valenza rispetto alle forze di terra e di aria: chi controlla oggi gli stretti di Hormuz, Suez, il Mediterraneo e il Mar Cinese meridionale controlla il mercato del gas liquido. L’Europa trova comunque un limite nell’uso del GNL, nel tentativo quindi di rendersi più indipendente dalle politiche di Putin. Al momento, infatti, vi sono problemi d’ordine tecnico-economico perché il GNL necessita di infrastrutture specifiche, porti e rigassificatori, e le attuali strutture europee GNL non sono in grado di sostituire integralmente i flussi delle pipeline russe.

Il problema tecnico non risiede tanto negli impianti di rigassificazione ma nella carenza della rete distributiva. L’hub più importante del GNL è la Spagna ma la mancanza di un sistema di gasdotti che trasporti il gas (rigassificato) al resto del continente provoca di fatto una strozzatura della capacità produttiva dell’hub iberico. Solo una parte del gas rigassificato può essere immesso in via continuativa nel centro e nell’Est della UE: il reticolo dei gasdotti è stato progettato e realizzato negli ultimi decenni per accogliere “l’oro blu” proveniente dall’Est del continente euroasiatico. Pensare di creare oggi una rete di condotti dalla Spagna al resto dell’Europa comporta costi del tutto fuori mercato.

La terza soluzione è governare il processo della transizione energetica che viaggia su due strade parallele. Una è quella della ricerca di nuove fonti che non siano quelle fossili, dalle rinnovabili quali l’eolico, il fotovoltaico sino al nucleare (non a caso inserito di recente nella tassonomia europea delle fonti green). L’altra, quella principale, da una nuova organizzazione della produzione e distribuzione dell’energia, dove il digitale ne è la componente principale. Ciò che potrà rendere obsolete le attuali infrastrutture energetiche, pipeline o trasporto marittimo del GNL, sarà l’incontro di queste due nuove vie.

La ricerca è orientata alla creazione di ridotte unità produttive (indipendentemente dalla fonte energetica). Si passa dallo “stato centralizzato” dell’energia a un “federalismo energetico”: si è orientati a realizzare piccole unità energetiche (anche con combustibile nucleare). Tali unità, oltre che consumare ciò che producono, immetteranno in rete il surplus e la direzione dei flussi energetici sarà quindi bidirezionale.

Per governare questo processo l’azione del digitale è fondamentale. Lo strumento digitale saprà modulare, di volta in volta, la direzione dei flussi energetici dalla centrale alla periferia, o viceversa, ottimizzando domanda e offerta – forzando il concetto, per renderlo ancora più comprensibile, si potrà realizzare il “KM zero energetico”.

Significativo anche che i dispositivi digitali consentano l’attivazione dell’energia elettrica e la sua regolazione mediante il controllo a distanza, e tale trasformazione ha implicazioni economiche (e soprattutto geopolitiche) del tutto inedite. Da una parte diminuirà la valenza geopolitica delle pipeline, mentre si imporrà a livello globale una nuova “dipendenza”, quella delle terre rare, gli elementi indispensabili per la produzione dei dispositivi digitali. Non è un caso che buona parte dei fondi della Next Generation Eu siano destinati proprio alla transizione energetica e al digitale.

La ricerca è la nuova arma strategica nella competizione globale ed è lo strumento che potrà relegare la rete dei gasdotti all’archeologia industriale, modificando radicalmente gli odierni assetti geopolitici.

In conclusione, ad oggi, ambedue i contendenti, Russia ed Ucraina, hanno buone ragioni per non portare le tensioni oltre un punto di non ritorno. Da una parte Putin e la sua oligarchia energetica è dipendente dai consumi europei: la Russia attualmente non potrebbe sopportare economicamente una drastica diminuzione, se non una interruzione, dei flussi di cassa assicurati dalle esportazioni del gas. Dall’altra parte, l’Ucraina incassa circa un miliardo di dollari l’anno per i diritti di transito dei gasdotti russi.

Si può insomma affermare che la dipendenza del gas gioca il medesimo ruolo che la deterrenza atomica ha avuto in questi decenni nello scongiurare un confronto diretto tra le potenze globali. Fintanto che fornitore (Russia) e consumatore (Europa) sono legati fra loro vi sarà la necessità, nei momenti di tensione, di trovare un possibile equilibrio. Quando l’equilibrio sarà messo in discussione potrà aumentare di molto la possibilità di un conflitto.

Ricordiamo per ultimo che nella “guerra non guerreggiata” vi sono comunque già delle vittime – cioè chi deve pagare il conto delle bollette. Gli aumenti esponenziali di questi tempi segnano già dei vincitori, le multinazionali energetiche i cui profitti hanno come rovescio della medaglia un ulteriore compressione del reddito dei singoli e delle famiglie.

La dimensione e la profondità del cambiamento non è ora prevedibile con certezza. Il divenire presenta sul palcoscenico della storia nuovi attori, quali saranno i protagonisti e quale sarà la scenografia che farà da sfondo alla loro recita lo possiamo solo intuire ma non determinare. Ciò che invece possiamo fare e dobbiamo fare è comprendere ed organizzarci per tentare di modificare il presente: non solo immaginare un mondo diverso ma cercare di costruire ora rapporti tra coscienti ed eguali. Questo potrebbe essere il granello di sabbia per inceppare la millenaria macchina del potere.

Daniele Ratti

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


Volantino antimilitarista sulla questione ucraina

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Sostegno della FAI alla campagna antimilitarista

Contro le missioni militari all’estero, contro tutte le guerre!
Rafforziamo la lotta antimilitarista!

Negli ultimi mesi l’impegno bellico all’estero dell’Italia è ulteriormente aumentato con nuove missioni in particolare in Africa e nello scenario Ucraino.
Nello stesso tempo la militarizzazione interna fatta di militari nelle strade e controlli alle frontiere non accenna a diminuire mentre il complesso militare-industriale continua ad aumentare i propri profitti.
Per questo riteniamo centrale nei prossimi mesi sostenere e allargare le lotte antimilitariste nei vari territori: dalle mobilitazioni in Piemonte contro l’industria aereospaziale di guerra e alla candidatura di Torino a ospitare il progetto DIANA (Defence Innovation accellerator for north atlantic) della Nato alle lotte in Sardegna contro le basi militari e i poligoni, da quelle in Sicilia contro il Muos a quelle in Friuli contro le nuove caserme “green” dell’esercito e l’inquinamento prodotto dalle esercitazioni.
Importante è anche il contrasto alla crescente penetrazione della propaganda dell’Esercito nelle scuole e nelle università, non ultima la stipula di accordi per lo svolgimento dei PCTO in Sicilia presso le caserme.
Sosteniamo con forza le prossime iniziative promosse dall’Assemblea Antimilitarista il 19 marzo e il 2 aprile, entrambe a Milano, di denuncia del ruolo dell’Eni nel dettare la politica estera del governo italiano per accaparrarsi le risorse energetiche depredando e devastando i paesi del sud del mondo e il particolare l’Africa. E’ importante lottare contro le devastazioni ambientali causate dagli eserciti e dalle multinazionali da essi protette e creare intersezioni fra i movimenti ecologisti dal basso e l’antimilitarismo.
Oggi più che mai, anche di fronte ai venti di guerra che attraversano anche l’Europa, è necessario sviluppare e praticare l’antimilitarismo in ogni ambito della società.

Federazione Anarchica Italiana
Convegno del 19-20 febbraio 2022

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