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Manifestazione: contro Eni, le guerre e chi le arma

Contro tutte le guerre e chi le arma. Contro le politiche guerrafondaie dell’ENI.
L’Italia è in guerra. I governi che si sono succeduti hanno coperto le operazioni belliche tricolori sotto un manto di ipocrisia. Missioni umanitarie, operazioni di polizia internazionali hanno travestito l’invio di truppe sui fronti di guerra in Somalia, Libano, Serbia, Iraq, Afganistan, Libia. Quest’estate, per la prima volta in quarant’anni un ministro della Difesa, in occasione del rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero, ha rivendicato spudoratamente le avventure neocoloniali delle forze armate come strumento di tutela degli interessi dell’Italia. Ben 18 delle 40 missioni militari all’estero sono in Africa nel triangolo che va dalla Libia al Sahel sino al golfo di Guinea. Sono lì per fare la guerra ai migranti diretti in Europa e per sostenere l’ENI. La bandiera gialla con il cane a sei zampe dell’ENI accompagna il tricolore issato sui mezzi militari. Le multinazionali energetiche come l’ENI e le banche producono guerre e saccheggio ambientale. La guerra viene progettata, organizzata, condotta da generali senza divisa e stellette, quelli che in giacca e cravatta siedono nei consigli d’amministrazione delle multinazionali insieme ai loro strapagati
consulenti. Sono loro che lasciano ad altri il “lavoro sporco” mentre pianificano una guerra invisibile, che apparentemente non distrugge, non sparge sangue. Il fronte non è solo sui campi di battaglia ma passa attraverso le nostre città e le nostre vite. Un fronte invisibile, solo apparentemente silenzioso, ma che ogni giorno presenta il bollettino di caduti che hanno tanti volti. Il volto della classe lavoratrice, con il carovita e il progressivo prelievo dai salari per finanziare le spese militari ormai senza limite. Il volto delle
giovani generazioni ripagate con la precarietà, con salari che bastano solo a sopravvivere. Il volto dell’ambiente devastato per alimentare la macchina della produzione. Essere in piazza significa denunciare tutto questo e lottare per una trasformazione sociale radicale che investa tutte e tutti, umani e non umani, per costruire un presente ed un futuro senza sfruttamento, oppressione, guerre e saccheggio dell’ambiente. Contro informare, organizzarci e lottare sono le nostre armi. Le armi della dignità delle persone e della coscienza antiautoritaria di classe. Il conflitto imperialista tra la NATO, che mira a continuare l’espansione ad est cominciata dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, e la Russia, che, dopo decenni di arretramento, ha deciso di passare al contrattacco occupando l’Ucraina, ha causato un grande balzo in avanti della propaganda militarista. Draghi ha deciso un ulteriore aumento della spesa militare e l’invio di truppe sul fronte est della NATO. 500 militari, scelti tra gli incursori della Marina, Col Moschin, Forze speciali dell’Aeronautica e Task Force 45, si vanno ad aggiungere ai 240 alpini in Lettonia e i 138 uomini dell’Aeronautica in Romania. Nel Mar Nero ci sono la fregata FREMM “Margottini” e il cacciamine “Viareggio”, oltre alla portaerei “Cavour” con i cacciabombardieri F-35. Noi non ci stiamo. Noi non ci arruoliamo né con la NATO, né con la Russia. Rifiutiamo la retorica patriottica e nazionalista, diretta emanazione della logica patriarcale, come elemento di legittimazione degli Stati e delle loro pretese espansionistiche.
L’antimilitarismo, l’internazionalismo, il disfattismo rivoluzionario sono stati centrali nelle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici sin dalle sue origini. Sfruttamento ed oppressione colpiscono in egual misura a tutte le latitudini, il conflitto contro i “propri” padroni e contro i “propri” governanti è il miglior modo di opporsi alla violenza statale e alla ferocia del capitalismo in ogni dove. Opporsi allo Stato di emergenza bellico, all’aumento della spesa militare, lottare per il ritiro di tutte le missioni militari all’estero, per la chiusura e riconversione dell’industria bellica, per aprire le frontiere a tutti i profughi, ai migranti e ai disertori è un concreto ed urgente fronte di lotta.
Il 2 aprile saremo quindi in piazza a denunciare le guerre scaturite dagli interessi delle multinazionali energetiche, dal mantenimento di apparati militari sempre più costosi e dalla devastazione dell’ambiente schiacciato dalla logica feroce del profitto. Per indicare in modo chiaro i responsabili manifesteremo nelle piazze del potere finanziario da Piazza Affari a Piazza della Scala.
Contro le banche, i veri padroni del sistema energetico, i responsabili della rapina ambientale e del finanziamento dell’apparato industriale militare. Per fermare le guerre non basta un no. Bisogna mettersi di mezzo. A partire dalle nostre città.
Sciopero generale, boicottaggio e blocco delle basi militari e delle fabbriche di morte!

Appuntamento per sabato 2/4 h.14.30 in piazza Affari a Milano

ASSEMBLEA ANTIMILITARISTA

Posted in Antimilitarismo.


Assemblea Non una di meno 30/03

Non una di Meno Milano si riunisce in assemblea, per poter continuare costruire il percorso transfemminista contro la guerra e ogni forma di violenza strutturale di genere.

– h.19: accoglienza
– h. 19.30: inizio assemblea

ordine del giorno (work in progress):
– proseguiamo la nostra riflessione #stopwar a partire da una prospettiva femminista e transfemminista
– come ci organizziamo?
* momenti e spazi di ragionamento oltre le assemblee operative
*dialogo e confronto tra le soggettività che partecipano al percorso di NUDM
– prossimi eventi e appuntamenti
– varie ed eventuali

dove?
* in presenza @ Ateneo Libertario, viale Monza 255
* online: scrivi a nonunadimenomilano@gmail.com per ricevere il link

Posted in Contro l'eteropatriarcato.


Verso le radiose giornate di Maggio? Il militarismo in azione.

Verso le radiose giornate di Maggio? Il militarismo in azione.L’antica affermazione di Eschilo che “in guerra la prima vittima è la verità” può senz’altro valere in questi tempi di uso massiccio della robotizzazione del lavoro giornalistico e del monopolio informativo ad opera delle agenzie di stampo governativo anche se, in realtà, la verità è sempre nell’occhio del mirino nella società del privilegio e della gerarchia. Comunque questa frase si conferma come utile elemento d’orientamento nel marasma di articoli, interventi, talk show che ci viene quotidianamente proposto. Non aiutano nemmeno i social dove le riflessioni sono sempre più rare nel frastuono dei tifosi dell’uno o dell’altro schieramento.

La necessità di tutte le parti in causa, sia di prima sia di seconda linea, è quella di disorientare il nemico, di bombardarlo di dati falsi o fuorvianti; in più, in ogni conflitto è assolutamente necessario compattare la propria parte e disgregare l’opposizione.

La tecnica odierna, lo sappiamo tutti e tutte, consente manipolazioni di ogni sorta, creazioni di filmati ad hoc, riproposizione di materiale “vecchio” magari ripescato da qualche archivio di guerre precedenti. Insomma le fake news si sprecano ma questo non dovrebbe stupirci più di tanto. Come non ci dovrebbe stupire il fatto che la comunicazione, con il passare dei giorni, diventi sempre più a senso unico e sempre più aggressiva nei confronti di chi non si allinea al mantra dominante, in occidente come in oriente.

Pari pari alle indicazioni che troviamo sui mezzi pubblici – non disturbate il manovratore o il conducente – ci viene in buona sostanza intimato di non disturbare coloro che ci stanno portando a danzare sul filo del rasoio, come se a tagliarsi fossero loro e non noi. Non li vedete come si sorridono e si stringono la mano nei summit quelli che dovrebbero trovare una soluzione al tragico conflitto in atto? Il fatto è che gli appartenenti alle classi dirigenti si conoscono e si frequentano tra loro e spingono le classi subalterne – che invece non si frequentano e raramente si conoscono – a massacrarsi vicendevolmente.

I plurimiliardari russi e ucraini, i cosiddetti oligarchi, che stanno dietro questa guerra, si conoscono benissimo, vengono tutti da quell’immensa rapina delle aziende statali operata allo scioglimento dell’Unione sovietica, come pure si conosce una buona parte della gerarchia statale dei rispettivi paesi. Sono i soldati di leva russi, i coscritti ucraini, i proletari e le proletarie di entrambi i paesi a non riconoscersi tra loro come vittime sacrificali di questa guerra, infame come tutte le guerre, perché se lo facessero saprebbero benissimo da che parte rivolgere le armi e in tal caso l’invio di armi e munizioni, oltreché di corpi, sarebbe più che salutare.

Dobbiamo essere chiari: quello in corso è un conflitto tra stati, asimmetrico quanto si vuole, ma sempre tra stati. Sicuramente c’è un aggressore, la Federazione Russa, violento e sanguinario come tutti gli aggressori, che conduce una guerra d’invasione ben sapendo che l’aggredito può solo difendersi senza essere in grado di portare un benché minimo attacco al territorio russo. Sicuramente si tratta di una guerra impari, il cui prezzo lo sta pagando soprattutto la popolazione ucraina qualunque sia l’idioma preferito nel quale si esprime.

Sarebbe però semplicistico addossare la responsabilità della guerra esclusivamente a una sola parte. Il fatto è che da decenni, invece di cogliere i frutti derivanti dalla fine della “guerra fredda” che avrebbero dovuto portare ad una diversa impostazione dei rapporti internazionali, si è continuato a perseguire la politica dell’aumento degli armamenti, del loro perfezionamento, in funzione di una sempre migliore organizzazione della macchina militare.

D’altronde il feticcio della crescita economica permanente da parte di tutti i protagonisti della scena mondiale ha bisogno di nutrirsi con un continuo dispendio di risorse energetiche e un approvvigionamento continuo delle materie prime e delle terre rare indispensabili alla digitalizzazione e alla transizione energetica, fondamenti dello sviluppo industriale e quindi della ricchezza nei prossimi decenni. Sono cose però la cui disponibilità è in poche parti del mondo.

Ogni stato quindi, in quanto espressione concreta – in forma politica – del privilegio, deve operare per garantirsi un posto al sole nella competizione internazionale. Il raggiungimento di questo obiettivo non può conseguirsi che tramite la forza militare: nato e sviluppatosi tramite la potenza delle armi, ad esse deve continuamente rifarsi per potere affermare la proprie volontà. Lo stato, qualunque forma assuma, è sempre l’oppressione organizzata a vantaggio delle classi dirigenti. Questo come valeva ieri vale a maggior ragione anche oggi in tempi di globalizzazione dei mercati, dove le varie consorterie politiche ed economiche si servono del sistema statale in forma flessibile e modulare per il mantenimento e l’accrescimento dei loro privilegi. Ecco allora il rafforzamento di ogni stato in chiave repressiva e di controllo per stroncare ogni possibile ribellione interna, ecco l’alleanza di stati per garantirsi lo “spazio vitale” nei confronti di altri stati.

Non cogliere questo confronto in atto tra i principali protagonisti di un mondo ormai multipolare ci fa ripiegare in una visione semplicistica di quanto sta accadendo. Il martellamento continuo che la gran parte dei media sta facendo sul conflitto in corso vuole costringerci nel vicolo cieco dello schierarsi per poi mobilitarci sul fronte di guerra, anche se noi siamo già schierati a fianco della popolazione sofferente, per la cessazione immediata dei combattimenti, per il ritorno degli eserciti nelle rispettive caserme. Il martellamento però continua: prendiamo, per esempio, l’utilizzo che è stato fatto in questi giorni di una circolare dello Stato maggiore della Difesa, presa a pretesto per titolare i giornali con la notizia che l’Italia si sta mobilitando, accelerando di fatto la militarizzazione in corso e prefigurando una diretta scesa in campo dell’esercito italiano.

In realtà la circolare ha un altro scopo di più lungo profilo, cioè quello di battere cassa per avere più quattrini, più risorse per alimentare l’intera struttura che campa sulla tassazione dei cittadini e sui tagli ai servizi sociali. Quale momento più opportuno per esigere più fondi dallo stato? Ammiragli e generali hanno decodificato il messaggio dicendo che tutte le armi (eccetto probabilmente i carabinieri, da sempre fiore all’occhiello dell’ordine statale) sono in sofferenza di militi (ce ne vogliono di più), di preparazione (cosa ci stanno a fare a “presidiare” le vie cittadine invece di addestrarsi?), di mezzi (la solita carenza di manutenzione). Prontamente il parlamento ha risposto al grido di dolore con le stellette impegnando il governo a incrementare le spese per la difesa e portarle al 2% del prodotto interno lordo. In soldoni vuol dire dai 68 milioni di spesa al giorno ai 104. Chi ne pagherà le conseguenze è presto detto: sanità, scuola, cultura…

I grandi media, più militaristi dei militari, vogliono la prima linea e guai a chi la pensa diversamente. Andiamo a leggere, a questo proposito, quanto in questi giorni di guerra hanno scritto e proclamato in tanti: illustri storici, brillanti giornalisti, filosofi, e tanti leoni da tastiera in difesa dei valori “morali”, storici e culturali dell’Europa nei confronti della barbarie di Putin e dei suoi accoliti. Fiumi di retorica per occultare un fatto incontestabile: l’ipocrisia delle tanto sbandierate democrazie dell’occidente.

In cinque anni in Yemen sono morte 337mila persone, tra le quali 10mila bambini. Ne avete mai visto uno in televisione? Ebbene la mattanza è ad opera di uno stato come l’Arabia Saudita, le cui credenziali democratiche – nonostante gli elogi renziani – sono come minimo altamente discutibili e alle cui spalle ci sono altri difensori della moralità come gli USA, la Francia, la Gran Bretagna.

Sei milioni di palestinesi sono stati espulsi dai loro territori dalle politiche dello stato di Israele, definite da apartheid da un organismo come Amnesty International – di solito omaggiato quando guarda fuori dai cortili di casa nostra. Assassinii mirati, leggi razziste, distruzione di case, annessione di territori, tutto questo non ha meritato una sia pur minima sanzione dai garanti dei valori europei, tutti concentrati a dare valore alla molotov ucraina e a definire terroristica quella palestinese. Ci ricordiamo poi dell’Iraq? Della Siria? Dell’Afghanistan? Della Libia? Degli omicidi di civili definiti “danni collaterali”? Del diverso trattamento riservato ai profughi di guerra? Quanti si esprimono sui respingimenti alla frontiera polacca di chi arriva da guerre “altre”, generalmente “sporche”, le cui motivazioni sono solo apparentemente locali ma, dietro le quali, c’è sempre un interesse delle multinazionali e, dietro di loro, gli stati per l’accaparramento delle terre e delle materie prime: vuoti a perdere nel gelo dei boschi bielorussi utili solo, a suo tempo, a denunciare il cinismo del dittatore Lukashenko.

Meglio muoversi sull’onda delle emozioni umane sollecitate dagli schermi televisivi e redarguire quanti oggi non si vogliono mettere l’elmetto. Se hai solo dei dubbi sull’opportunità di inviare armi all’esercito ucraino diventi un sostenitore di Putin; se – come Donatella Di Cesare – vuoi comprendere tutte le motivazioni che stanno alla base della guerra ti meriti il disprezzo e il sarcasmo degli interlocutori, se – come Barbara Spinelli – ti permetti di riprendere quanto già affermato da analisti statunitensi sull’inopportunità dell’allargamento a Est della NATO diventi, come ha detto Riotta, una “putinversteher”, una sostenitrice di Putin.

C’è anche chi ricorda (Adriano Sofri, Flores d’Arcais) l’appello del settembre 1973 per una raccolta fondi destinata a fornire armi al MIR cileno dopo il colpo di stato di Pinochet, un’iniziativa che si rifaceva al 1936 spagnolo, indirizzata a galvanizzare una militanza convinta che a breve sarebbe giunta l’ora di imbracciare il fucile in un contesto di grande conflittualità sociale. Un’iniziativa con nessuna possibilità pratica di riuscita stante la forza e la violenza dell’esercito cileno e la mancanza di una tensione insurrezionale nel proletariato cileno paragonabile a quella spagnola. Inoltre la realtà sudamericana d’allora mai avrebbe consentito il passaggio di armi verso qualsiasi forma di resistenza.

Ci sono poi quelli (Luigi Manconi) che paragonano l’impegno dell’esercito ucraino alla resistenza contro il nazifascismo, mettendo sullo stesso piano un esercito di professionisti, di una gran parte di coscritti (dai 18 ai 60 anni) e di una parte di volontari, alle bande partigiane che in Italia si erano costituite dopo l’8 settembre 1943 e il disfacimento dell’esercito italiano. L’invio di armi all’Ucraina sarebbe quindi paragonabile ai lanci degli Alleati ai partigiani dimenticando alcuni fatti non certo secondari: le armi i primi partigiani se le erano procurate inizialmente (nel cuneese) dallo scioglimento della quarta armata proveniente dalla Francia, poi attaccando caserme, singoli militi e così via. Altre bande, come quelle di orientamento social-comunista, le armi dagli Alleati le avevano con il contagocce e comunque in funzione degli obiettivi bellici di inglesi e americani. Mi pare completamente fuori luogo come si possa fare un parallelo tra una realtà fatta di militari sbandati, di antifascisti storici, di reduci dalla Russia, di giovani renitenti alla leva repubblichina, di donne combattenti che hanno voluto e scelto di combattere per un mondo diverso e libero dal fascismo – non certo per una monarchia corresponsabile del disastro e per uno stato in disfacimento – con un esercito regolare, ampiamente foraggiato di armi di tutti i tipi da un’alleanza potente come la NATO.

Spiace dover leggere queste considerazioni e questi appelli da persone che hanno contribuito in maniera importante al miglioramento delle condizioni di vita di questo paese; nulla però come la guerra consente di capire a fondo la natura e il comportamento umano. Mentre si discetta di resistenza e si insultano i pacifisti aumenta il clima bellico nella logica della guerra totale. In Russia Putin minaccia e mette in galera, con accuse di tradimento, chi osa dissentire dal suo volere, arrivando a proclamare una specie di guerra santa in difesa dei valori sacri, patriarcali e omofobi, del risorto Impero di tutte le Russie; da noi si dà la caccia al demonio russo, sia che abbia il volto di uno stimato direttore d’orchestra sia quello di un brillante fotografo, Alexander Gronsky, cancellato da un festival di fotografia a Reggio Emilia anche se non poteva parteciparvi visto che è in galera in Russia in qualità di oppositore di Putin; per non parlare della delirante esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle paralimpiadi di Pechino o della censura del corso dedicato a Dostoevskij alla Bicocca di Milano.

La guerra nell’epoca contemporanea, dai conflitti mondiali in poi, non è più guerra di eserciti ma deve necessariamente essere totale, deve coinvolgere le popolazioni in prima linea. Più è estranea al sentire comune più deve trasformarsi in una lotta al male assoluto, al nemico trasformato in “mostro”. Se si capissero invece le reali motivazioni che stanno dietro ogni guerra, cadrebbe ogni maschera e il re apparirebbe nudo.

Dovrebbero far riflettere le recenti dichiarazioni di Wess Mitchell, già assistente Segretario di Stato USA per gli Affari europei ed euroasiatici dal 2017 al 2019: “La guerra dimostra che l’ordine mondiale è entrato in una fase caotica. Le relazioni tra potenze stanno mutando a causa dell’ascesa cinese. (…) La Cina (…) necessita ancora di tre o quattro anni per raggiungere la sofisticatezza militare necessaria a prevalere in un conflitto. Washington dovrebbe sfruttare questa finestra di tempo per infliggere a Mosca dei costi altissimi (…). L’Ucraina è il cuore di questa strategia. Gli Stati Uniti devono utilizzarla per sfibrare, prosciugare e impoverire la Russia, organizzando approvvigionamenti militari continuativi alle forze locali (…). Dovremmo avviare un programma di armamento a lungo termine per gli ucraini, così come facemmo negli anni ottanta con i mujahidin contro l’URSS. (…) L’Ucraina è un’opportunità strategica per l’Occidente (…).” [Limes, 2/2022]

La guerra come opportunità, i morti come opportunità, i bambini e le bambine come opportunità, l’intera popolazione in prima linea come opportunità.

Nel Marzo 1915 un gruppo di 37 esponenti del movimento anarchico internazionale stilarono a Londra un Manifesto Internazionale Anarchico contro la Guerra, in esso vi è scritto: «… per gli anarchici non vi è mai stato, né vi è oggi alcun dubbio (e gli orribili avvenimenti attuali rafforzano tale convinzione) che la guerra è in permanente gestazione nell’odierno sistema sociale. Il conflitto armato, ristretto o allargato, coloniale o europeo, è la conseguenza naturale, l’inevitabile e fatale risultato di un regime che si basa sulla diseguaglianza economica dei cittadini e sullo sfruttamento dei lavoratori; d’un regime che riposa sul selvaggio antagonismo degli interessi, e pone il mondo del Lavoro sotto la stretta e dolorosa dipendenza di una minoranza di parassiti che tengono nelle loro mani il potere politico ed economico. (…) Il compito degli anarchici, nella presente tragedia, qualunque possa essere il luogo e la situazione in cui si trovino, è di continuare a proclamare che c’è una sola guerra di liberazione: quella che in ogni paese è sostenuta dagli oppressi contro gli oppressori, dagli sfruttati contro gli sfruttatori. Il nostro compito è di spingere gli schiavi a ribellarsi contro i loro padroni. L’azione e la propaganda anarchica devono assiduamente e con perseveranza mirare a indebolire e disgregare i vari stati, a coltivare lo spirito di rivolta ed a sollevare il malcontento nei popoli e negli eserciti».

Non mi pare che ci sia motivo per mutare questo impegno.

Massimo Varengo

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


Guerra, energia, capitalismo

Guerra, energia, capitalismo

Quanto in corso nell’est europeo mette sotto i riflettori diverse questioni, tra le quali il rapporto tra guerra ed energia, dove i media non sempre colgono le complessità di questa relazione. La vicenda russo-ucraina fa emergere due nodi fondamentali, uno geopolitico e l’altro economico, nei quali l’energia gioca un ruolo decisivo. Per quanto riguarda l’aspetto geopolitico i mezzi d’informazione tendono a sottolineare solo la dipendenza della UE dalle fonti energetiche russe, gas in particolare. Il dibattito è quindi rivolto alla ricerca di altri fornitori internazionali (la recente visita di Di Maio unitamente all’ad di ENI De Scalzi in Qatar ne è un esempio) o altre fonti energetiche, dal carbone al nucleare alle rinnovabili. Vi è un aspetto invece trascurato, ma decisivo.

Il conflitto ripropone all’Europa un tema centrale, quello di trovare nello scacchiere internazionale un proprio autonomo spazio di là delle tradizionali alleanze politiche e militari atlantiche. L’Europa, ancora una volta, non ha una posizione unitaria, si presenta in ordine sparso nella gestione diplomatica e militare del conflitto. Solo alcuni leader, Macron e Scholz, hanno un filo diretto con Putin, mentre i referenti politici degli altri paesi rimangono in secondo piano o sono del tutto assenti. Anche gli aiuti, compresi quelli bellici, all’Ucraina sono frutto di iniziative di singoli paesi. Emerge in modo chiaro e netto la mancanza di una visione condivisa europea.

Se la UE non è compatta nell’affrontare la crisi non è solo la risultanza di una incompiuta unità politica ma è legata a doppio filo alla questione energetica. La dipendenza dalle fonti fossili russe (solo per il gas la UE importa il 45% del suo fabbisogno dalla Russia, 25% la quota del petrolio), non è equamente divisa fra i 27 stati membri. Italia e soprattutto Germania ne dipendono in modo decisivo: l’Italia importa dalla Russia il 40% del gas, la Germania ne dipende per il 50%, mentre altri, ad esempio la Francia, non hanno significativi legami energetici con Mosca. Uno degli obiettivi strategici di Putin è quello di dividere l’Europa e l’arma energetica è quella più efficace.

La storia del Nord Stream 2 – il più importante progetto di collegamento energetico tra Russia e Germania (temporaneamente sospeso nello scorso mese dal cancelliere Scholz) – ci offre un significativo quadro di come gli interessi del capitalismo europeo, e in particolare tedesco, non abbiano una posizione unitaria nei confronti di Mosca. Il gasdotto, sebbene di proprietà della società russa Gazprom (uno dei leader mondiali del settore fossile,) è stato finanziato da cinque società europee (Uniper, Wintershall Dea, Shell, Omv ed Engie) e rappresenta, sotto il profilo geopolitico, un saldo legame con Putin. In Germania è da tempo attiva una lobby del gas capitanata dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che al giugno 2020 sedeva nei board della compagine petrolifera russa Rosneft e di Nord Stream AG, società che aveva costruito la prima pipeline Nord Stream 1.

Se la storia delle due pipeline Nord Stream ci dicono molto sulle relazioni di dipendenza di una parte del capitalismo occidentale con il Cremlino, dall’altro lato una parte importante dell’occidente, non solo europeo ma “atlantico”, sta prendendo posizioni radicalmente avverse a Putin, in particolare Gran Bretagna e Norvegia. L’inglese BP (British Petroleum, una delle maggiori multinazionali del settore energetico) e il più importante fondo sovrano mondiale Norges (gestito dalla banca centrale norvegese) hanno dismesso la loro partecipazione azionaria in Rosfnet, la principale compagnia energetica russa, innestando un effetto domino. Equinor, il gigante dell’energia norvegese, ha dichiarato che non ha più intenzione di investire in Russia.

Non è un caso che le decisioni radicali di BP e Norges siano facilitate dalla minore dipendenza energetica da Mosca a differenza di alcuni paesi europei. Ancora una volta l’energia divide non solo la UE ma anche le alleanze atlantiche: le contraddizioni europee sono emerse in modo evidente anche nell’incontro di capi di governo della UE tenutosi a Versailles tra il 10 e l’11 marzo. La Francia ha proposto un debito comune europeo, in sintesi un Recovery Fund bellico-energetico; l’idea è stata divisiva, con l’Italia favorevole e contrari Germania e Olanda. Di fatto si ripropone, come per altre questioni – vedi il “ritorno” del nucleare, il progetto di un esercito europeo e l’ipotesi di una nuova “Agenzia del debito Europeo” – un asse franco-italiano in contrapposizione ai paesi nord UE. Anche l’idea di nuove sanzioni nei confronti di Mosca non ha trovato piena condivisione. In sintesi la questione energia-geopolitica ci consegna un occidente diviso e di fatto poco incisivo, pressoché inerte nel trovare soluzioni comuni.

Pure per l’aspetto economico del rapporto guerra-energia la narrazione dei media è alquanto approssimativa. L’informazione fa risalire alla vicenda bellica la causa dello straordinario aumento dei prezzi energetici e delle materie prime: ricordiamo che in un anno gli aumenti sono stati del +131% per la luce e del +94% per il gas naturale. La relazione guerra-energia-rialzo dei prezzi ci conduce a valutazioni che esulano direttamente dalle vicende belliche in corso ma coinvolgono altri aspetti: i conflitti non si svolgono solo sui campi di battaglia ma anche e soprattutto nelle sedi delle banche centrali e nelle principali istituzioni finanziarie. La moneta, i tassi di interesse, gli strumenti finanziari tra i quali i futures hanno la medesima valenza dei più sofisticati ed avanzati sistema d’arma – tra la guerra e l’energia emerge un altro attore, il vero protagonista: la finanza.

Occorre sfatare un luogo comune, divulgato dai media e dagli opinionisti al soldo del sistema. I prezzi dell’energia, ai quali bisogna associare quello delle materie prime e generi alimentari, non si sono impennati solo a causa delle recenti vicende belliche ma sono il frutto di speculazioni finanziarie. I prezzi internazionali delle materie prime sono esplosi sulla spinta dei titoli finanziari o meglio dei futures, strumenti che, per le loro caratteristiche tecniche, moltiplicano all’infinito i prezzi senza che vi sia un reale, concreto, aumento della domanda di beni o viceversa di scarsità dell’offerta. In altre parole il prezzo sfugge alla logica della domanda e dell’offerta, non riflette più lo scambio di beni fisici, segue invece le contrattazioni finanziare che a loro volta sono influenzate dai futures – vere e proprie “scommesse” sulla previsione dei prezzi di beni.

Se dall’inizio della pandemia vi è stata una certa difficoltà a rifornire di merci il mercato globale, per le ovvie e note problematicità nella produzione e trasporto di merci, non vi è oggi alcuna giustificazione per l’aumento esponenziale delle bollette del gas, dell’elettricità o del rifornimento di carburanti. Ad oggi non vi è stata alcuna sospensione delle forniture di oro nero o blu da parte della Russia verso l’Europa che possa giustificare un rialzo drammatico dei costi energetici che sta drenando le risorse, già scarse, nelle tasche dei produttori (in contemporanea si stanno alzando a dismisura i profitti delle imprese energetiche). Né tantomeno sono stati sospesi i pagamenti, via Swift, a Gazprom: in sintesi la Russia rifornisce l’Europa e questa fa affluire nelle tasche di Putin un miliardo di euro al giorno. Gli effetti del conflitto, nonché delle “dure” sanzioni occidentali non colpiscono, al momento, il flusso vitale per i due contendenti principali, Occidente e Russia: l’energia fluisce da est a ovest e da qui si provvede con puntualità quotidiana a saldare il conto, contribuendo, oltretutto, in modo deciso a finanziare i costi della guerra.

È quindi del tutto evidente che l’esplosione dei prezzi non dipende dal mercato “fisico” ma è figlia della speculazione, innanzitutto dei titoli energetici. L’esempio più chiaro lo si ha nella quotazione del brent WTI (petrolio estratto in Texas): il WTI sul mercato viene quotato tramite lo strumento dei contratti futures e interessa e influenza ben due mercati finanziari: New York Mercantile Exchange (NYMEX) ed International Exchange. Osservando l’andamento della quotazione WTI nel periodo 8 marzo-10 marzo vediamo che nel giro di soli tre giorni di mercato si è passati da un valore di 130 dollari al barile a 90 dollari.

In ogni caso il processo di finanziarizzazione dell’economia non è un fenomeno attuale ma ha preso piede dai primi anni del 2000 e sono cinque i passaggi fondamentali che hanno permesso la transizione dal capitalismo produttivo a quello speculativo finanziario. L’amministrazione Clinton, nel 1999, aboliva il Glass-Steall Act, (provvedimento del 1931 che separava le banche commerciali da quelle di investimento) e, soprattutto, si è introdotta nel mercato del credito la cartolarizzazione – insomma la possibilità di trasferire i crediti, quindi il loro rischio, in una miriade di titoli da vendersi a pioggia sul mercato. In poche parole si ribaltava il rischio dell’insolvenza del credito in capo alle banche e alle finanziarie su un esercito di piccoli investitori. Per ultimo i derivati, tra i quali i futures, hanno dismesso il loro compito originario di strumenti a copertura della fluttuazione dei cambi o dei prezzi per diventare degli autentici strumenti di “scommessa”, soprattutto per il mercato energetico e dei prodotti agricoli. I derivati hanno inoltre avuto un decisivo impulso da quello che è definita la “finanza ombra”, cioè la possibilità tecnica attraverso le piattaforme informatiche e l’utilizzo di algoritmi per un numero infinito di operatori di operare sul mercato finanziario in tempo reale. Si è in tal modo moltiplicato e velocizzato il numero delle transazioni finanziarie e quindi la possibilità di influenzare l’andamento dei prezzi. In poche parole il valore del prodotto fisico non dipende più solo dal reale scambio sul mercato (domanda e offerta) ma dalla previsione del suo valore.

Ultimo fattore decisivo per innescare la speculazione sui prodotti energetici è il mercato dei certificati dei crediti di carbonio. I produttori di energia elettrica, come stabilito dal protocollo di Kyoto, al fine di ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei settori energivori, devono approvvigionarsi, tramite aste, sul mercato delle quote necessarie per coprire il proprio fabbisogno di emissioni. Nel 2005 è stato istituito l’EU ETS il più grande mercato sistema internazionale per lo scambio di quote di emissione di carbonio. In sintesi le grandi aziende produttrici d’energia sono obbligate a comprare tali certificati per compensare l’emissione di CO2 che rilasciano nell’atmosfera: pagare per poter continuare a inquinare. Su tali mercati si è innestata la speculazione finanziaria tramite i futures influenzando in tal modo gli oneri delle società energetiche. Nell’arco di un anno dal marzo 2021 ad oggi la quotazione dei futures sui crediti in carbonio è più che raddoppiata contribuendo alla crescita dei costi energetici.

Le soluzioni proposte dai media per rompere il ciclo guerra-energia-aumento delle bollette sono solo risposte “tampone”: si va dal ritorno “temporaneo” del carbone, al ritorno invece stabile del nucleare, o incentivare lo sviluppo delle rinnovabili. Altra misura è la revisione del costo della bolletta, sgravandola da oneri quali il contributo per lo “smantellamento” delle centrali nucleari inattive.

Sgravare le bollette di tali oneri gioverebbe soprattutto a chi ha meno risorse: tali misure sono solo parziali e non affrontano il nocciolo del problema – la speculazione finanziaria. La soluzione sarebbe una sola: quella di ricondurre i derivati al loro scopo originario cioè quello della protezione della fluttuazione dei prezzi per operazioni reali. Va da sé che tale misura non verrà mai adottata da un sistema, quello capitalista, che in buona parte (soprattutto in occidente) ha “dismesso” gli investimenti e la produzione. Il profitto deriva da decenni dalla compressione dei salari e dalla ricerca del minor costo del lavoro (delocalizzazioni e proliferazione dei contratti a termine) nonché dalla speculazione finanziaria.

In conclusione la guerra nel suo rapporto con l’energia fa emergere le contraddizioni di un sistema che sta mostrando la corda e che non riesce più ad autoriformarsi. Costruire relazioni tra umani che non abbiano il profitto come fine è sempre meno utopico ma concreta alternativa.

Daniele Ratti

Posted in Antimilitarismo, da Umanità Nova.


Assemblea cittadina – Milano contro la guerra

Assemblea cittadina – Milano contro la guerra. Iniziativa di Milano antifascista antirazzista meticcia e solidale.

Martedì 29 Marzo, ore 21.00, presso Ateneo Libertario, viale Monza 255

Posted in Antimilitarismo.


Convegno di studio su Eni e missioni militari italiane in Africa

Guerra e energia: l’Eni e le missioni militari italiane in Africa

Inizio convegno h.10.30 presso Laboratorio occupato Kasciavit

Introduzione di un compagno dell’Assemblea Antimilitarista

Stefano Capello
La politica energetica italiana tra la prima e la seconda Repubblica. Continuità e rotture

Daniele Ratti
L’ENI Armata

Inizio discussione

pausa pranzo

ripresa 14.30

Antonio Mazzeo
Le avventure neocoloniali dell’Italia dal Sahel al Mozambico

Andrea Turco
La colonizzazione mentale, il caso ENI a Gela

Massimo Varengo
Uno sguardo antimperialista sulla guerra in Ucraina

Interventi aperti

Posted in Antimilitarismo.


Manifestazione cittadina. Di nuovo in piazza contro la guerra

Posted in Antimilitarismo.


Lotto Marzo 2022: Contro tutti i militarismi, massima espressione del machismo e dell’autoritarismo patriarcale

 

CONTRO TUTTI I MILITARISMI,

MASSIMA ESPRESSIONE DEL MACHISMO E DELL’AUTORITARISMO PATRIARCALE

 

Come compagne e compagni dell’Ateneo Libertario di Milano e della Federazione Anarchica Milanese, oggi scioperiamo non soltanto contro il patriarcato, ma anche contro la guerra, una delle sue espressioni più alte e violente. Il potere militare e poliziesco è infatti complice di riprodurre la logica e la cultura dell’oppressione etero-cis-patriarcale che ostacola quotidianamente i nostri percorsi di liberazione.

Come anarchiche e antimilitariste ci schieriamo contro ogni forma di potere e di dominio, contro ogni gerarchia e rivendichiamo l’autodeterminazione. Da sempre lottiamo contro il sistema patriarcale, che concepisce le relazioni come dominio e proprietà e attua il suo programma con lo strumento del ricatto economico, dell’oppressione e della violenza delle armi e dello stupro. Le armi italiane sono presenti su tutti i teatri di guerra. Guerre che paiono lontane sono invece vicinissime: non solo perché le aziende che le producono le abbiamo in casa, come il colosso pubblico Leonardo S.p.A., ma anche perché è sempre più crescente la penetrazione della propaganda dell’Esercito nelle scuole e nelle università, come la stipula di accordi per lo svolgimento dell’alternanza scuola-lavoro nelle caserme o gli accordi che la Leonardo S.p.A. ha stipulato con diverse università italiane, tra cui il Politecnico di Milano (il cui rettore, Ferruccio Resta, è addirittura membro del consiglio di amministrazione della Leonardo). L’industria bellica è un business che non va mai in crisi, nemmeno con la pandemia. Nel 2022 le spese militari italiane hanno superato i 26 miliardi di euro e le vendite dei 100 maggiori produttori di armi al mondo sono aumentate del 1,3% rispetto a prima della pandemia. Tra questi la Leonardo si è classificata al 13° posto della classifica globale. L’aumento delle risorse per la guerra e i suoi profitti sono inversamente proporzionali al calo delle risorse destinate alle reali necessità sociali che riguardano la maggioranza della popolazione mondiale come sanità, istruzione, cultura, trasporti, ambiente, lavoro e garanzie sociali. Un solo giorno di spesa militare, pari a 70 milioni di euro, corrisponde al costo di 7 nuovi edifici per la scuola media inferiore o al costo complessivo di 482 studenti che completano l’intero ciclo di istruzione dalla materna fino alla laurea. Rispetto gli altri paesi europei il personale sanitario è diminuito del 4,9% negli ultimi otto anni. Le famiglie totalmente indigenti sono il 7,7% in più rispetto al 2019. Le condizioni salariali registrano record negativi. Aumentano i lavoratori con bassa paga oraria e in Italia i salari, rispetto al 1990, sono diminuiti del 2,9%. La disoccupazione tra i giovani laureati (17,9%) e diplomati (27,7%) è il doppio della media europea. A guidare la classifica delle emissioni nocive non sono i colossi chimici o petroliferi, ma la difesa e gli armamenti, con il 15% dell’inquinamento complessivo. Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade così come i confini.

 

ATENEO LIBERTARIO

FEDERAZIONE ANARCHICA – MILANO

Posted in Antimilitarismo, Comunicati, Contro l'eteropatriarcato.