Una finanziaria di guerra
Come al solito i potenti sono tutti d’accordo. Il presidente della repubblica, il capo del governo, il ministro dell’economia, i leader politici di maggioranza e della sedicente opposizione.
Mentre l’Istituto Nazionale di Statistica ci informa che in Italia ci sono 8 milioni di poveri, di cui 3 milioni sotto la soglia di povertà assoluta, questi signori hanno deciso, tutti insieme e in tempi record, di far pagare tutti i costi della crisi a chi la crisi l’ha subita tutta: i pensionati, i precari, i lavoratori dipendenti, i disoccupati, le donne, gli immigrati.
I tagli alle cosiddette “agevolazioni” fiscali, introdotte a suo tempo per compensare l’aumento delle aliquote per i redditi più bassi, colpiranno, per l’appunto, solo i redditi più bassi. Tra l’altro, di fronte ad un gettito richiesto dall’aumento della pressione fiscale di 4 miliardi nel 2013 e di 20 miliardi nel 2014, questi tagli prevedono un aumento del prelievo fiscale, a carico delle sole famiglie più povere, di 8 miliardi nel 2013 e di 40 miliardi nel 2014.
L’introduzione dei ticket nei pronti soccorsi e per le ricette trasforma la malattia in un lusso.
Se avessero voluto risparmiare 22 miliardi di Euro avrebbero bloccato il TAV in Val Susa o avrebbero ritirato le truppe dall’estero.
Se ne avessero voluti risparmiare 23 (tanto valgono le indennità percepite dai politici locali e nazionali) avrebbero potuto tagliarsi gli stipendi e i benefit e invece hanno introdotto surrettiziamente un emendamento che comporterà l’aumento della diaria dei parlamentari di 3/400 euro al mese.
Visto che, nonostante questa manovra, non hanno neanche risolto il problema del disavanzo (con lo stesso sistema già adottato in Grecia) aspettiamoci una nuova crisi del debito a breve che servirà a far passare l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni per tutti, l’aumento dell’IVA e la vendita di qualche monumento nazionale (come ha già fatto il Comune di Roma con il regalo del Colosseo a Della Valle). Con buona pace di chi si illudeva nel cambiamento determinato dal referendum gli enti locali saranno comunque costretti a vendere le imprese partecipate e le municipalizzate (e non solo gli acquedotti) per non dichiarare fallimento.
Lo sappiamo noi e lo sanno milioni di lavoratori, precari, studenti, senza casa, specie se donne: la finanziaria scarica il peso della crisi sui poveri e rimpolpa le tasche dei ricchi. Niente di nuovo sotto il sole. La disoccupazione – già fortissima – sarà aggravata dal blocco del turn over negli impieghi pubblici come dalle norme che perpetuano la precarietà. Chi lavora farà ancora più fatica ad arrivare a fine mese. L’ennesimo attacco alle pensioni renderà sempre più difficile la vita di milioni di anziani poveri. Gli ennesimi tagli nei servizi sociali aumenteranno le spese per i lavoratori. Queste misure, messe insieme, faranno sì che tanti dovranno ridurre le spese. Ed ogni riduzione di spesa, in questo sistema perverso, significa ulteriore aumento della disoccupazione perché se la gente non compra, la produzione non può che diminuire.
La crisi, pretesto di ogni furto legalizzato dalle tasche dei più poveri, alimenta se stessa. In questi anni tutti gli interventi voluti dall’Unione Europea non hanno avuto altro effetto che allargare la crisi: la cura aggrava il male anziché eliminarlo. L’esempio greco è sotto gli occhi di tutti: buona parte della popolazione ellenica lo ha capito benissimo e non vuole altri interventi, non vuole altri prestiti destinati a calmare per un po’ la fame infinita degli istituti bancari.
È tempo di invertire la marcia. In questi anni l’unico paese uscito da una crisi è stata l’Argentina, dove l’estendersi dell’azione diretta e di forme di autogestione popolare territoriale, nonché lo sviluppo di esperienze di economia solidale hanno costretto i governi a scelte del tutto diverse.
In Europa gli sfruttati islandesi hanno dato un segnale forte e chiaro, gettando a mare le ricette di lacrime e sangue e spingendo per l’attuazione di politiche solidali. Nel Mediterraneo del Sud e nella stessa Europa le proteste sono spesso sfociate in vere e proprie rivolte contro le politiche governative. In alcuni casi le stesse istituzioni – comprese quella della democratica Europa – sono state delegittimate dalle piazze.
La schiavitù salariata – per chi non vive sfruttando gli altri – in questo sistema sociale è l’unico orizzonte possibile. Ma sempre più sfruttati lottano per cambiare radicalmente l’orizzonte.
Anche in Italia i movimenti dell’ultimo anno paiono alludere ad una rinata voglia di autonomia, ad una maggiore consapevolezza della necessità di guadagnarsi un futuro migliore, senza delegare a uno dei due poli o ai sindacati concertativi e complici di governo e padroni il proprio futuro. Serve tuttavia che le lotte si estendano, che la solidarietà sia il cemento di un movimento radicale e radicato, che sappia spezzare il consenso intorno allo Stato e al capitalismo, per difendere la dignità, la libertà, le condizioni di vita delle classi oppresse e sfruttate.
Ma la difesa non basta. Occorre cambiare registro, occorre che le lotte siano il terreno in cui attecchiscono i semi di una società diversa, egualitaria ed autogestionaria. Ormai i segnali ci sono tutti: basta saperli ascoltare e fare propri.
A dieci anni da Genova, a dieci anni dalla fine del movimento contro la globalizzazione, serve quel passo in più che mancava allora. Grecia, Spagna, Portogallo, Egitto, Val Susa sono il segno forte del vento che cambia.Un vento che questa volta non va imbrigliato nelle vele stanche della democrazia partecipata, del capitalismo dal volto umano, del sindacalismo concertativo ma non troppo.
Non serve un nuovo partito, non serve un nuovo movimento dei movimenti: l’autonomia degli oppressi e degli sfruttati si esprime in modo diretto, dal basso sviluppando movimenti di lotta radicali e radicati.
La gente comune, quella stanca di pagare ed obbedire, sta riprendendo in mano il proprio destino.
È tempo di cambiare rotta.
Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana