Come è prassi per l’attuale compagine governativa, quando vi è la necessità di far passare leggi e leggine “impopolari”, lo strumento è sempre lo stesso: un maxi DdL con all’interno di tutto e di più di difficile comprensione soprattutto per il povero “popolo bue”. In periodo di crisi economica, e pensando probabilmente che essa sia di carattere congiunturale e non strutturale, padronato e governo, con il solito tacito assenso dei sindacati di stato confederali, hanno pensato bene di mettere le mani avanti per disciplinare, a loro vantaggio, il mondo del lavoro in previsione di un’eventuale ripresa che significhi maggiori guadagni e profitti per le imprese e maggiori condizioni di sfruttamento e minori diritti per il lavoratore salariato.
È in questa logica che va interpretato il cosiddetto “Collegato Lavoro alla Legge Finanziaria 2010” ossia un’ulteriore picconata allo Statuto dei Lavoratori, ed in particolare al “famoso” articolo 18, da attuarsi attraverso una nuova possibilità di contrattazione collettiva.
Oltre ad elementi peggiorativi per tutte le figure del lavoro “flessibile” (contratti a progetto, part-time, ecc.) vi è, nella sostanza, prescindendo dal linguaggio giuridico, la possibilità per le aziende di assumere lavoratori facendogli sottoscrivere un contratto individuale “certificato”, dove il lavoratore sottoscrive la sua “libera volontà” di accettare deroghe peggiorative a norme di legge e di contratto collettivo, e dove il lavoratore rinuncia preventivamente, in caso di controversia o licenziamento, ad andare davanti al magistrato (rinunciando alla piena tutela delle leggi): in questo caso, il giudice viene sostituito da un collegio arbitrale che può decidere a prescindere dalle leggi e dai contratti collettivi; massima discrezionalità, da parte del collegio arbitrale, nei casi di vertenza per i lavoratori assunti con contratti precari e atipici.
Tutto ciò si collega alla riforma del processo del lavoro e alla disciplina dei licenziamenti.
Nel primo caso il giudice non può contestare le deroghe peggiorative contenute negli accordi individuali (tra l’altro viene abolito l’obbligo del tentativo di conciliazione prima del ricorso al giudice).
Nel secondo caso dove il giudice deve “tener conto” di quanto stabilito nei contratti individuali e collettivi come motivi di licenziamento per “giusta causa” o “giustificato motivo”, deve considerare, più che il diritto, la situazione dell’azienda, la situazione del mercato del lavoro, il comportamento del lavoratore negli anni, ecc; e quindi tramite i contratti “certificati” si possono certificare e rendere validi motivi aggiuntivi (non previsti dalla legge e dai contratti collettivi) per licenziare liberamente il lavoratore.
È evidente che questo ultimo tassello legislativo del governo-padronato si inserisce pienamente nel più complessivo attacco alla contrattazione collettiva iniziata negli ultimi anni.
Dopo aver privilegiato la cosiddetta contrattazione di “secondo livello” da attuarsi a livello territoriale ed aziendale oggi si passa addirittura a quella “ad personam” impedendo, di fatto, ogni riferimento alle residuali garanzie fornite dai CCNL nel caso che il lavoratore abbia dovuto sottostare a clausole vessatorie eventualmente sottoscritte, pressato dalla necessità di trovare lavoro.
Come si vede, cose vecchie con il vestito nuovo…
La dinamiche del conflitto capitale-lavoro, legate alle varie forme della contrattazione contrattuale, si sono date in diversi modi e con frequenti ricorrenze ma con diverse interpretazioni date dai rapporti di forza.
Nel secondo dopo-guerra, e fino agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, una classe lavoratrice forte, coesa e agguerrita sul terreno dello scontro con il capitale, vide la contrattazione aziendale come possibile ariete per scardinare i limiti della contrattazione nazionale. Oggi, a fronte di una classe frammentata, disorientata nei suoi punti di riferimento identitari e organizzativi – in primis quelli sindacali – Confindustria e soci vedono nella contrattazione di secondo livello, o peggio ancora in quella ad personam, un incudine micidiale nel residuo mondo dei diritti del lavoro fomentando ulteriori divisioni, pulsioni localiste, interessi privati, ecc. al fine di indebolire ancora di più i già labili legami solidaristici della classe lavoratrice.
I quadri normativi, legislativi e contrattualistici non essendo “neutri” rappresentano e fissano i rapporti di forza e di contrapposizione tra le classi e, dal punto di vista del lavoro, è evidente che attualmente la contrattazione, sia nazionale che nelle altre varie forme, non è uno strumento utile in mano al mondo del lavoro salariato per acquisire nuovi diritti o a difesa del valore d’acquisto di stipendi e pensioni.
Forse sarebbe necessario recuperare, dal patrimonio storico del movimento operaio, strumenti atti alla salvaguardia del salario svincolato dalla produttività, dalle compatibilità aziendali e sistemiche, ma ancorato in modo diretto al costo e alla qualità della vita.
Superare contrattazioni legate alla diversificazione merceologica per orientarsi invece a contratti nazionali unici vigenti per unico ciclo produttivo (ad esempio il settore automobilistico e il suo indotto) e per fare questo si pone la necessità di recuperare e rilanciare il meglio della tradizione sindacale di inizi ‘900, quelli maggiormente orientati in senso libertario e anarcosindacalista come unico antidoto alla svendita della classe lavoratrice operata dai sindacati concertativi e di stato e anche di un certo sindacalismo di “base” ormai avviluppato in logiche e lotte d’apparato che nulla hanno a che vedere con la lotta di classe.
Paolo Masala